Benché nelle immagini finali de Il cielo sopra Berlino compaia la scritta “To be continued”, Wim Wenders non avrebbe girato Così lontano, così vicino se non fosse caduto il Muro di Berlino: “Dovevo esprimere la mancanza di poesia che respiravo nell’amata città dopo l’abbattimento del muro. Gli angeli non sono più figure metaforiche ma personaggi protagonisti del film che riesce a suo modo ad essere una sorta di thriller. Un film con moltissime riflessioni; il più difficile che abbia mai girato” [sintetico commento al film da parte del regista].
Malgrado la tristezza traspaia in Così lontano, così vicino, Wenders non manca di ricordare ed elogiare la figura del vecchio trovatore, del poeta e narratore definito addirittura come un trovato, per il quale la vita è viaggio, dove, contrariamente alla condizione del detective (che palesa così il suo rammarico “Io cerco come sempre e quindi non ho trovato niente”) le cose vengono trovate, si incontrano e lo stesso narratore viene parlato.
L’ennesima figura di Omero, comunque e sempre preziosa anche per la narrativa che rilascia a chi gli sta intorno.
Chi scrive e narra storie vive nel riconoscimento dell’Altro, ovvero il riconoscimento attiene alla relazione armoniosa con l’Altro. Non necessità di apparire a fianco del personaggio famoso (nel film i guardiani quando incontrano Peter Falk, il famoso Tenente Colombo), il quale, perché conosciuto da tutti, seguendo un ragionamento induttivo trasmetterebbe all’uomo comune la sua fama, così da colmare l’irrelazione inconscia. Ragionamento che ricorda il discorso frastico di prendere metonimicamente una parte per il tutto.
Per lo scrittore l’unica eccezione di un prendere (come lamenta l’angelo cattivo) che non sia dicotomico rispetto ad un dare, quindi egoismo-altruismo, sadismo-masochismo, ovvero prendere nota per proseguire a scrivere.
Neanche prendere atto, perché l’atto di parola è sempre mancato, sempre asincrono, sempre sorprendente, sempre inaspettato ed inaspettabile.
Altrimenti la tristezza e lo smarrimento depressivo di Wenders, riscontrabili in Cassiel (l’angelo che diventa uomo), perché a Berlino l’atmosfera postuma l’abbattimento del muro e l’ipotetica fine della guerra fredda era quella che segue un isterico passaggio all’atto.
In Così lontano, così vicino, come diceva Wenders, tante sono le questioni accennate in maniera esplicita: il nome, il padre, l’identità. Temi attuali, sempre da riprendere ed elaborare.
Ma quello che Wenders fa inconsapevolmente apparire è quello del muro del linguaggio Lacaniano.
La mancanza non è colmabile passando all’atto, abbattendo i muri. Certo ci si salva, ma la necessità essenziale è l’abbattimento del muro del linguaggio, per trovarsi essenti nel fare e nel dire, perché questa mancanza non venga colmata ma si sublimi in qualità e cifra, in racconto e poesia.
Tutto questo in Così lontano, così vicino. Nulla che ricordi gli spettacolarismi da Kolossal, le emozioni forti Hollywoodiane (come dice in un intervista Willem Dafoe, uno dei pochi attori americani del film), le emozioni preconfezionate che devono colpire demagogicamente lo spettatore, sempre indotto e condotto.
C’è una scena del film nella quale Cassiel cade in preda all’angoscia in una galleria d’arte, mentre viene proposta una carrellata di volti che nelle loro smorfie ricordano quello dipinto da Munch nel famigerato Urlo.
Urlo che è stato spesso immaginato come l’urlo di chi riusciva a vedere nel futuro e quindi si trovava di fronte alle tragedie disumane del ventesimo secolo. Ma i volti nel film, così come quello di Cassiel di fronte ad opere d’arte, sono lo spavento dello squarcio della Parola Originaria, dell’irruzione dell’Altro, dell’imminenza dell’intervallo e dell’infinito.
Come a dire che il titolo del film, FARAWAY SO CLOSE, possa richiamare cosa sia il sembiante: tanto distratto, tanto lontano, ma così prossimo all’essenziale, alla traccia della verità.