Ombre è il titolo del racconto di Tommaso Landolfi, facente parte della raccolta curata da Italo Calvino Le più belle pagine.
E’ notte in una residenza signorile di provincia, dove il conte padrone di casa ha organizzato con amici e parenti uno scherzo per un barone, fargli cioè credere che la casa sia infestata da fantasmi. Il tutto accompagnato da colpi di pistole caricati a salve, che il barone crede veri ma inefficaci ad atterrare lenzuola svolazzanti con cui i burloni si mascherano da fantasmi.
Un ladro, vedendo appunto un fantasma su un albero del giardino, si avvicina a curiosare ed intuisce la tresca. Pensa che simile situazione sia ideale perché lui possa introdursi inosservato, mascherato anch’esso da fantasma, ed operare tranquillamente un lauto furto.
Incontra però due fantasmi appartati e li ascolta incuriosito: lui dichiara il suo amore a lei che sulle prima afferma di non poter ricambiare. Poi invece si dichiara anch’essa, ma lo avverte che il loro amore non potrà essere consumato perché altrimenti lei sarà costretta ad ucciderlo in quanto non può non obbedire alla legge “Nessuno possa dire di avermi avuto”, perché “Ti amo più di me stessa, ma non più…”.
Dopo mezzora si sente un urlo, ovviamente dovuto al ritrovamento del corpo dell’innamorato, trovato morto sparato sul fondo della scala recante alle cantine.
Ombre è un racconto bellissimo, che ti fa percepire come la vita sia più autentica nella letteratura rispetto alla presunta realtà, alla cronaca, al resoconto dei fatti.
Può accadere di essere sotto lo sguardo inquisitore, sempre pronto ad incolpare se non si dice la verità, e quindi andare verso l’afasia perché diventa difficile sostenere l’impossibilità di un resoconto veritiero.
In questo caso la difficoltà di un discorso ossessivo è dovuta al logorio della resistenza, che aggiunge metonimicamente in parata, in sfilata significanti ad altri significanti, tenuti e conservati sempre in ordine e sotto controllo.
Il resoconto è appunto non rimuovere alcun significante, non dimenticarlo per scongiurare che possa funzionare come nome nella rimozione, per trasmettere in copia fedele la collezione dei significanti, trasmetterla tutta integra ed originale.
Il resoconto e la resa dei conti dove l’ossessivo è sempre in debito, perché non ha detto tutti i significanti, perché ne ha dimenticato uno.
La funzione di zero, la funzione di nome è abolita, non è presa nella rimozione, non è artefice della rimozione. L’ossessivo non riesce a rimuovere, non riesce a cambiare discorso, è appunto ossessionato ed ossessionante.
Non riesce ad articolare, non riesce ad elaborare, proclama senza nominare. O sogna ad occhi aperti o parla pensando di dire le cose come stanno.
Il tempo come ritmo dell’Altro non può essere ripartito in presente, passato, futuro. E’ l’esperienza ad essere tripartita.
Di fronte ad un lutto, e quindi rispetto all’incapacità di elaborazione e di rimozione, rimuove senza dimenticare. Inondato di improvvisa lucidità, di inaspettate energie, trova la forza per spostare la pietra e metterla sopra l’accaduto. Procede ricordando, perché ogni ricordo è ricordo di copertura.
Non riesce a raccontare perché non riesce a dimenticare, e quindi il sogno diventa fantasticheria.
Non accedendo alla rimozione teme di non ricordare, non ha fiducia nelle facoltà del gerundio, della vita in atto, dell’atto di Parola, e quindi non si fida di nessuno.
Il ladro delle Ombre è caricatura del discorso ossessivo, se si lascia andare alla ventura approda all’impossibilità di narrare fedelmente un fatto, non gli crederebbero. Incontra il paradosso che il delitto perfetto è quello non premeditato.
La bellezza, la verità, per essere sentita come tale, necessità del dispositivo intellettuale, del dispositivo di scrittura.
Cosa importa del colpevole? Chi è più biasimevole? I fantasmi burloni? La zitella assassina? Il ladro che non denuncia il fatto perché non gli crederebbero?
L’essenziale, il formidabile, è la fantasia, la novità, l’apertura del racconto che il ladro ci ha regalato, che Landolfi e il suo azzardo ci hanno proposto?
Così chiude il ladro, l’io narrante del racconto: “E’ vero che ora sapete anche voi. Ma tanto tempo è passato, e non credo ci sia da temere qualche civico slancio. Già, chissà come è andata a finire quella gente.
Alcuni saranno anche morti. Soltanto di Marta ho saputo per caso che è una vecchia e aristocratica zitella e bada alla sua proprietà. Ella vive tuttora in quella casa, ma sola.
E con ciò basta. Più su mi sono persino messo a fare il poeta: è tempo di tornare al lavoro”.
17 Novembre 2009