Lo sceicco bianco

 

Federico Fellini fece analisi e i suoi film vengono considerati incontri di svolta per i registi che sono venuti dopo di lui, un po’ come Franz Kafka per molti scrittori.
Il film di questa sera, Lo sceicco bianco, è del 1952, ed è il suo primo film come regista non in collaborazione con altri (Luci della ribalta del 1950 aveva come co-regista Alberto Lattuada).
L’incarico venne proposto a lui dopo che vi rinunciò Michelangelo Antonioni, e tra i collaboratori alla sceneggiatura va segnalato Ennio Flaiano.
Già però s’intravedono le tracce che lo faranno conoscere in tutto il mondo come regista dell’immaginario, del sogno, del passato come invenzione, ma comunque anche preciso fotografo di epocali situazioni, come quella della borghesia romana de La dolce vita (1960).
Viene trattata la fascinazione e suoi risvolti, esplicitamente quella verso lo sceicco bianco quale personaggio dei fotoromanzi allora molto in voga, sullo sfondo quella verso il Papa.
Ricorda la fascinazione, la mitizzazione dell’analista da parte dell’analizzante che può avvenire in una prima fase dell’analisi. La fascinazione non è ancora la riuscita, cioè l’analista che sembra divenire colui da cui dipende tutto, occorre, come diceva Lacan, che diventi resto rispetto all’apertura che si spalanca in quella conversazione o negli incontri delle giornate successive.
Collegandoci al film che abbiamo proiettato la settimana scorsa, Io ti salverò di Alfred Hitchcock, se il mistero dell’interpretazione da svelare fa da guida come metodo nella conversazione d’analisi, ecco la fascinazione, che può riguardare anche l’analista.
Le questioni non possono essere vissute come impedimenti di cui liberarsi, né si può quindi liberarsene, ma nell’attraversamento e nell’elaborazione di esse è possibile trovare la libertà.

A tal proposito ecco cosa disse Angelo Arpa in una lettera scritta a Federico Fellini:

Del resto, la tua concreta esistenza, per la sorte che la privilegia e la rende incomparabilmente sola, ha come giusto contrappeso la conflittualità e quella insicurezza che non demorde neppure nelle ore del successo.
Tutto questo non appartiene a un destino qualsiasi, ma alla nobiltà di un disegno, nei confronti del quale possiamo sentirci vittime, ma possiamo anche essere protagonisti liberi e disincantati.

 

Chi era Angelo Arpa?
Padre Angelo Arpa era un gesuita morto novantaquattrenne nel 2003 a Roma. Scrittore, intellettuale, filosofo, produttore cinematografico, fu tra gli ideatori che introdussero il Cineforum in Italia. Difese in prima persona Federico Fellini dagli attacchi ricevuti da tutti i fronti all’uscita de La dolce vita, e per questo venne fortemente ripreso dal Vaticano.
Per Federico Fellini fu essenziale interlocutore, e l’inedito della loro relazione, qualcosa di Fellini e dei suoi straordinari film, si può intendere leggendo il suo libro L’arpa di Fellini, dal quale è tratta l’elaborazione che segue.

 

Così Angelo Arpa cifra la relazione con Federico Fellini:

Non so cosa io abbia dato a lui, ma la mia vita è segnata dall’incontro con lui. Ogni volta era come la prima, una conversazione radicale….Erano discorsi che facevamo così, a tocchi senza pretesa di codificarli, e spesso finivano così, a metà: lui riaccendeva il motore e partiva, magari salutava, senza dire più niente.

Il loro primo incontro Arpa lo racconta così:
Fellini mi fu presentato a Venezia da Brunello Rondi, in occasione del premio conferito al film La strada (1954). Un breve colloquio, con il desiderio e la consegna di rivederci.
Qualche tempo dopo, a fine settembre, Fellini mi invitò ad andare con lui sulla spiaggia di Ostia. La spiaggia a quell’ora era deserta e il cielo senza luna impalmava tutte le stelle; ad un certo punto, non ricordo perché, forse per superare la timidezza o forse perché attratto da quella atmosfera surreale, presi a parlare del Logos giovanneo come primigenio di ogni realtà che si fa luce e sorgente di luce.
Poi si parlò un po’ di tutto, della mia vita, dei miei interessi, soprattutto se mi sentivo a mio agio nella scelta della vita religiosa. Si andò avanti per oltre un’ora, con rari, direi timidi, interventi di Federico.
Tornando a Roma in macchina, ad un certo punto si fermò e mi parlò del film La strada, di come l’aveva concepito, di come aveva faticato a realizzarlo, concludendo, e in qualche modo tacendo, sul finale tramortito di Zampanò.
Occorre portarle queste preziose testimonianze perché altrimenti come dice Arpa: Ho sperimentato autentica pena, pensando che il patrimonio onirico di Fellini possa venire commercializzato con la disinvoltura che ha presieduto alle mostre dei suoi disegni, soprattutto la fretta con la quale è stata imbastita una ballata televisiva, chiamata a ratificare la complessa individualità di un artista come lui, ideatore solitario de la Dolce Vita e di 8½ che mai si sarebbe adattato alla diaspora commerciale delle sue emozioni più segrete; ma è purtroppo destino dei grandi essere malmenati e sfruttati post mortem.

Questa la lettera che Angelo Arpa scrisse a Fellini per la Pasqua del 1993, l’ultima lettera che gli scrisse, in quanto Fellini morì da lì a poco nell’Ottobre del 1993:

Caro Federico,
Pasqua ritorna anche quest’anno, nel segno della vittoria della vita sulla morte.
E’ la festa che bandisce tutti i nostri malanni e riscalda i muscoli induriti dello spirito.
Per me è la stagione della fede, nel cammino della storia di cui è grazia inventare il pronostico. Ma è anche la stagione dell’arte.
Che cos’è infatti l’arte, se non la misura con l’aldilà del nostro confine e l’incontro stupito con i margini ancora incontaminati della nostra grandezza e del nostro piacere?
L’artista non è altro che un sovrano in cerca di terre sconosciute.
Uomo come tanti, conosce frane ed esaltazioni, ma gli è impossibile l’inerzia, perché la voce che lo chiama dentro è più forte di quella che lo spegne.
A volte penso che l’avventura di un artista non sia tanto di inventare storie, ma di inventare una sua storia che abbia il pudore di chi non sa cosa dire, perché riesce solo a dare quel poco che ha e, fra tante scelte, quel brano che non scrive mai, perché sarebbe la fine.
Comunque, il passaggio fra noi di un artista provoca sempre una sfida di valori e un liberante controcampo al prepotere della ragione sulla vicenda esistenziale dell’uomo.
Non è poco, perché e necessario che ciò che è veramente umano non sia definito dalla sola razionalità e che trovi spazio un nuovo tipo di uomo, che dia tutta la sua importanza all’immaginazione, alla creatività, al simbolo e alla gratuità.
Approdare a questa riva costituisce la fatica solitaria di chi è nato nella stagione dell’arte. Per chi vive nella stagione della fede è trapianto indolore nella primordialità del tutto.

Per Angelo Arpa quindi Fellini era essenzialmente un artista:

Fellini ha sempre avuto una dimensione religiosa, che mi pare sia istintiva in un artista. L’artista per sua natura tende alla trascendenza, attraverso i colori, attraverso i suoni, attraverso le immagini comunque espresse. L’immaginario, non avendo paradigmi fissi, tende all’oltre. Tante volte ne abbiamo parlato, e mi ricordo che gli dicevo: “Vedi Federico, io sono un uomo profondamente religioso. Non potrei vivere senza questa dimensione. Non perché l’umano non mi piaccia e non mi interessi. Non è questo il problema; è che il mio spirito non è mai a pieno titolo appagato. E’ un cercare, un desiderare, un aspirare, un sognare l’oltre, e oltre dell’oltre…Vedi un orizzonte che cambia ogni volta i suoi colori, ma resta sempre aperto alla nostra fatica, percezione, e a darci quel tanto di sostegno alla nostra improprietà, e qualche volta la nostra paura.”

E quindi in merito a Fellini, al mistero e all’immaginario:

Fellini viveva il mistero come dimensione del possibile, e del possibile desiderato, ma difficilmente posseduto. Era la dimensione dell’artista, mai risolta, per cui egli è sempre insoddisfatto. Egli assorbiva tutto, e poi sceglieva le forme che più gli erano congeniali, e le proiettava nell’unica forma che conosceva: l’immagine trasferita nel mondo del cinema…
Fellini non era il solo a subire il fascino di Papa Giovanni, ma nell’ottica dell’immaginario questo Papa bello, grosso, totale, che parlava con la Luna come parlava con Cristo, certo per Fellini era un fenomeno. Il mondo di Fellini è l’immaginario, è la che crea tutti i suoi personaggi, e l’immaginario è reale e irreale insieme.

Fellini artista e quindi un uomo:

Quando Nino morì, Federico mi comunicò la notizia per telefono: “Angelo, Nino è morto: senza di lui mi sento tanto più solo, ma non smarrito, perché con la sua musica Nino mi ha lasciato il meglio di sé, e se i miei film continueranno a camminare e a commuovere, è perché faranno ascoltare nella loro musica la voce e l’umanità di Nino.”
Di sera a casa, solo nella mia camera, come di rito, presi a sfogliare i miei appunti e vi annotai: “L’artista è un arcipelago di sensazioni che, a certi livelli, è difficile ma non impossibile intonare.”
Dedicai quest’immagine a Nino e a Federico insieme.

Fellini artista e quindi bambino:

Fellini era estraneo, dico allergico, ad ogni formulazione che ha la pretesa di essere precisa, e cioè a ciò che in genere si chiama dogma. In questo senso è altamente cristiano, estraneo, più che ribelle, al dogmatismo di un Cristianesimo storicamente codificato. Così è stato, così ha affrontato il suo “viaggio”, e così l’Autore della vita lo ha accolto nella sua casa. Al suo funerale abbiamo letto questo “Se non diventerete come i bambini non entrerete…”.

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