Metafora, metonimia, catacresi

 

Metafora, metonimia, catacresi.

Una ricerca su questi tre termini porta a precisarli come figure retoriche, cioè “Qualsiasi artificio nel discorso volto a creare un particolare effetto sonoro o di significato. L’identificazione e la catalogazione delle figure ha creato fin dall’antichità problemi di base agli studiosi di retorica”.

Innanzitutto si ribadisce anche in questo campo l’impossibilità di classificare ed identificare.

Ritorna di primo acchito ciò che accadeva a Charcot, con le sintomatologie che si confondevano l’una con l’altra, sia perché le malattie avevano sintomi in comune, ma anche perché ogni malattia non era ontologizzabile, non manifestava sempre gli stessi sintomi. Di conseguenza il chiedersi come fare a differenziare una malattia dall’altra e quindi proporre per ciascuna la cura, ma soprattutto, quando si parla di malattia di cosa si sta parlando?

Oggi in apparati psico-assistenziali nessun intento di elaborazione teorica su queste sintomatologie, ma dibattimenti e discussioni su un caso clinico per decidere se il soggetto in questione sia isterico, ossessivo, paranoico, schizofrenico, borderline, ecc….e quindi somministrazioni di psicofarmaci, di risposte, di frasi.

L’identificare e il catalogare dunque operazioni frastiche, revisionistiche, dicotomiche, atte strategicamente a far fuori l’Altra possibilità, la precarietà, la punta d’angoscia della Parola Originaria.

Cosa accade nella strettoia angusta della sospensione occorrente per relazionarsi senza nessun sapere su un ipotetico discorso psicotico, o comunque con qualsiasi persona?

Accade l’inedito, la novità, l’incontro, il miracolo di una conversazione che diventa efficace, piacevole, narrativa, imprenditoriale.

Le cose accadono e proseguono senza possibilità alcuna di volontà e responsabilità soggettuale. Le cose accadono e si dicono da se, oltre se stessi.

L’ipotetico dominio a cui porterebbe una classificazione, una normalizzazione, un’analisi soggettuale degli oggetti, delle cose, dei simili, del mondo, del linguaggio inteso come strumento o come struttura, porta anche a pensare di poter riprodurre il naturale e quindi creare l’artificiale.

Quanto spettacolo oggi, tutto va reso spettacolare. Riverbero di un discorso frastico, quantitativo, di un discorso ossessivo non più alle prese con esplicite manie, ma che essendo nella posizione “dell’Uno” vuole fare l’originale a tutti i costi, vuole fare numeri mirabolanti, vuole essere un campione per perpetuare il discorso della copia originale, vuole essere il primo per consolidare “l’Uno”. Va oltre la timidezza proponendo l’esibizione e la sfilata, come i nudisti e i naturisti sulle spiagge d’estate. Va a caccia di primati e di record per poter stare nell’ordinalità della scalata. Il record, la registrazione del primato per poter ricordare, per tenere le cose sott’occhio, per resistere alla rimozione, che tramite il ritorno del rimosso e la sua fecondità, la sua secondità originaria, gli consentirebbero invece la memoria e il gerundio, per lui poca cosa rispetto al memorabile spettacolare ricordo che si troverebbe ad abbandonare.

Va in crisi di fronte alla smisurata vastità di una biblioteca, alla scelta di infiniti viaggi possibili, perché non potrà terminare la sua raccolta, perché non potrà vedere tutti i Paesi del mondo. Così si limita a specifiche raccolte per completare le quali diventa perfezionista, oppure opta per essere lui famoso ed essere visto da tutto il mondo.

Anche l’isteria ha perso l’enfasi dei sintomi plateali offerti a Freud e Charcot. L’isteria, avendolo idealizzato, non pensa di padroneggiare l’oggetto, e passa quindi da uno all’altro con facilità di rimozione, cercando continuamente qualcosa di nuovo. Essendo nella parte dello zero vuole sempre ripartire da zero, vuole fare le rivoluzioni. I numeri non sono ordinali ma cardinali, metaforicamente sono sigle, sono nomi che si danno a dei punti, a delle cose che consentono di dire “E’ questo – non è quello”, “Io sono così, lui è così, mio figlio è così, tuo marito non è così”. Ecco il discorso isterico inteso come sintattico, come la mappa, il corpo, lo scheletro, la struttura, i punti cardinali che consentono il viaggio.

Nelle faccende della vita sa farci molto di più perché non rappresenta l’oggetto. Sa che occorre giungere all’abbandono, ma abusa della rimozione adoperandola come atto soggettivo: “Sono brava a rimuovere e quindi continuo a rimuovere, con questa arma sempre mi salverò!”. Non lascia spazio alla resistenza, al silenzio che apporterebbe quella punta d’angoscia dove il nuovo viene scalzato dall’imminenza dell’inedito.

Non giunge all’abbandono ma abbandona.

Per la riuscita occorre trovarsi ad abbandonare, giungere all’abbandono ove l’energia si rivela solamente potenziale. Nella sospensione onirica il propellente per galleggiare è fornito dall’Altro, è l’Altro, è la gravità assoluta, in un “non spazio”, in un “non tempo” dove le cose giungono per abduzione.

Rispetto all’ossessivo stratega militare l’isteria è tattica, prende le decisioni in atto, ma non coglie che il programma che lei scarta non è l’obiettivo militare. Lei sta scartando la scrittura come dispositivo che minerebbe quel soggetto tanto nascosto ma tanto forte, tanto ambizioso, tanto assassino. Il programma è necessario, si scrive facendo, così come la scrittura dell’esperienza. Senza scrittura non vi è l’apertura, la generosità, e si cade nell’altruismo crocerossino.

Perpetuando la prolissità dello scantonamento rispetto alla prolissità della Parola corre il rischio del prolasso, della caduta, va incontro alla lussazione invece che al lusso, al plus ultra, all’inedito.
Nello scantonare imbocca la scappatoia invece che accogliere la strettoia, l’angustia della Parola Originaria.
Per essere generosi occorre l’inedito, perché, come diceva Lacan, per amare occorre dare quello che non si ha, l’Ascolto. Lasciare che sia l’Altro a guidare l’interlocutore alle prese con le peripezie, con le acrobazie, con le difficoltà dell’articolazione delle sue presunte questioni.

L’efficacia, la generosità di un testo, l’inedito. Ciò che è edito è un pretesto per il testo che è sempre ancora da scriversi. Non la rivendicazione, il capriccio “Voglio godere ancora!”, ma “Andiamo avanti, continuiamo perché c’è ancora da dire, da fare, da programmare” come incipit sulla prua della Nave dei folli.

Impossibile separare e distinguere nettamente le innumerevoli figure retoriche.

Dicendo Luigi è un leone, e quindi facendo una metafora, non è poi così diverso da Luigi è come un leone, con cui si farebbe una metonimia.

Anche l’etimo è simile: Metafora = io trasporto; Metonimia = qualcosa che ha che vedere con il trasporto.

La perentorietà di “Io trasporto” da l’idea del troncamento isterico, mentre “Qualcosa che ha che vedere con” da l’idea della leziosità che consente di girare ossessivamente in tondo.

La guerriera isterica vuole essere la più bella del reame e fa fuori le contendenti, vuole essere migliore delle donne che l’hanno preceduta.

L’ossessivo (la parte per il tutto, come una vela per indicare la barca) vuole essere l’unico al mondo.

Catacresi = abuso. Già subito l’intendimento di metafora abusata, che accade senza volerlo, quindi sulla via del lapsus, dell’atto mancato, dell’incontro.

Giungere quindi al sogno e alla catacresi, piuttosto che volere e fantasticare qualcosa, abusare di qualcosa.

Sognare attività necessaria per gli accadimenti, per gli incontri, per il miracolo.

Del sogno nessuna interpretazione possibile, nessun appagamento di desideri inconsci, ma il sogno come condizione rilanciante un desiderio intorpidito da troppo appagamento, da un’indigestione di godimento.

Dopo aver mangiato troppo si viene attanagliati dal sonno perché il sogno, con il suo procedere inconscio, possa riaprire la strada verso l’oggetto non commestibile né fagocitabile.

 

18 Novembre 2008

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