Nei film di Wim Wenders molti personaggi sono in difficoltà, emarginati e confusi, attraversati anche da febbrile agitazione, da trafelata inquietudine, in una deriva che non è più piacere del viaggio, ma evasione ed isolamento.
Così Trevis, protagonista di Paris Texas. Trevis che ricorda Andel, il personaggio di Andel, il filo rosso dell’angelo, film del giovane regista torinese Roberto Ghisu, presente al cineforum sul suo film organizzato da Tracce Freudiane prima di Fino alla fine del cinema.
Andel si trova confuso a girovagare per Praga. Andel che aveva cercato leggi, aveva cavalcato regole, ma quello a cui poteva appigliarsi non erano che i suoi sogni.
Ma rimanere nei sogni era ancora rimanere angeli (qua già ci proiettiamo ne Il cielo sopra Berlino), occorreva il racconto del sogno, magari “in principio balbettando un fiume incontrollato di parole per uccidere il padre”, per dire che ogni volta che ci si rivolge al simbolico si commette il parricidio.
Trevis, invischiato nel sicuro e ovattato amore materno ripiegante nelle gelosie ossessive, dopo l’incendio del camper piomba in una sorta di pazzia (il tilt del flipper di Wenders, che ha nitido il ricordo della sua fanciullezza e di come tagliasse la messa per andare a giocare a flipper nel locale vietato ai minori di fianco alla chiesa), smarrito nella bellezza di Nastassja Kinski, smarrito di fronte alla sua alterità.
Trevis non dorme più, i sogni non sono più i custodi del sonno ma l’incubo il garante della sopravvivenza, la sua sessualità è bloccata, è succube di un godimento demoniaco, è asfissiato da un godimento erotico, è flippato.
Come uscire da questo tunnel?
Trevis non si ferma più, come Forrest Gump coglie che la soluzione, il dissolvimento dell’incubo è il viaggio.
Nello stesso tempo l’incubo consente il viaggio.
Di quale viaggio stiamo parlando è esplicitato in maniera indiretta, prendendo l’auto invece che l’aereo, cioè la pazienza come attributo del viaggio intellettuale, ove il cambiamento non attiene al soggetto che prende l’aereo per fare l’economia del tempo, per perpetuare l’urlo vorticoso della disperazione.
L’uscita dal tunnel è nell’acquisizione della pazienza intesa come attendere distrattamente, attendere senza attendere, in un labirinto pragmaticamente presi dall’articolazione e dal racconto delle questioni, perché gli incontri a venire siano eventi, perché la vita faccia sentire la sua essenzialità, cioè la poiesis, il fare, la poesia.
La temporalità che occorre è quella dell’Altro, del ritmo della voce che giunge come abduzione, come eco a togliere il timorante sguardo.
Come può capitare nel dispositivo di viaggio di una conversazione analitica dove l’analista sta alle spalle dell’analizzante, Trevis parla con il figlio Alex attraverso i walky-talky, o parla con la ex moglie Jane attraverso vetri che tolgono lui dallo sguardo di lei.
La fuga iniziale di Trevis lascia intendere che occorrono dispositivi intellettuali quali la solitudine di sconfinati paesaggi, libro bianco, tela intonsa sulla quale è possibile scrivere un’infinità di cose, di fronte alla quale si prova l’angoscia perché sembra di non aver nulla da dire.
Ma come dice Rilke, questa solitudine è già lavoro intellettuale, giungerà comunque l’aquila che coglierà qualcosa, giungerà comunque l’idea e da lì l’incominciamento, il racconto che improvvisamente sembra non poter finire, in maniera ordinale ma anche cardinale, tante le sono le idee che giungono come spunto per cominciare altre storie.
Trevis migliora, riprende a dormire, incontra una straordinaria donna che è pronta per ricominciare, ma lui dice no.
Nella decisione di rimanere selvatico e isolato sembrerebbe prevalere il godimento di un peregrinare rispetto all’inquietudine della relazione. Per cominciare occorre il deserto ma il viaggio nella Parola è viaggio nella città, è viaggio intellettuale, è viaggio dell’intraprendere.
Il miglioramento di Trevis non sarebbe comunque tale senza la frequentazione con il bambino Alex e la sua sembianza.
Bambini che sorprendono per la capacità di fare domande a sproposito, per non essere mai dove li si attende. Come accade quando Trevis esce dal prostibolo, lasciando lo spettatore in attesa che il figlioletto faccia domande sulla mamma; ma il bambino in quel momento non domanda nulla, e solamente quando saranno di fronte al bivio stradale conferma ed incoraggia l’intenzione del padre di ritornare ancora a parlare con la mamma.
Trevis divertentissimo quando chiede ingenuamente alla domestica “Com’è un padre? Sto cercando come deve essere un padre”.
Può sembrare la ricerca del padre perduto in tenera età, invece sta dicendo cosa cercano gli esseri parlanti quando si trovano a pensare di non essere più bambini, quindi non più in un divenire, in un balbettio, in un linguaggio sempre in costruzione.
Pensano di essere adulti e si trovano in difficoltà nelle relazioni, anche con i bambini, con i figli. Cercano un padre (occorrerebbe sempre rileggere La Coscienza di Zeno, quando Zeno Cosini si trova sul letto di morte del padre) che gli dica quel nome che consentirebbe di fissare l’oggetto, in modo da poter iniziare la costruzione del linguaggio universale che consentirebbe la trasmissione, l’intendimento perfetto nelle relazioni.
Sul versante frastico-ossessivo credere ai significati, prendere le cose alle lettera, fare quello che si dice pensando di poter dare un nome alle cose, ma palesando difficoltà ad iniziare anche solo a parlare, perché quel soggetto dalla forte ed autoritaria presenza va subito in crisi, perché lo sguardo si rivela rappresentato e non come facente parte della tripartizione sembiantica verdiglioniana specchio – sguardo – voce.
Sul versante sintattico-isterico rimuovere instancabilmente, rimuovere come soggetti anche la rimozione originaria (rimozione – resistenza – Altro / nome – significante – Altro) di un linguaggio in costruzione. Colmare tutto con le parole per non lasciare spazio al silenzio, all’eco della voce, che minerebbe e smaschererebbe il soggetto che pensa di essere comunque più furbo degli altri.