IL LAVORO DEL TENNIS

Un ragazzo domina la partita, costruisce gioco, fa vincenti, pressa l’avversario ma è troppo agitato, e questa agitazione aumenta quando è l’ora di allungare, staccare l’avversario e chiudere il set, o il game, tanto che il set invece di perderlo al tie-break avrebbe potuto finire 6-1.
Non occorreva per niente alzare il livello di gioco nei punti che contano, prerogativa che sta diventando leggenda, ma che andrebbe lasciata ai campionissimi, mentre sarebbe importantissimo non abbassare il livello di gioco quando si sta conducendo, soprattutto per giovani che tendono piuttosto ad essere attanagliati dalla paura di vincere, evocazione del bambino che, quando s’accorge che sta iniziando a pedalare senza rotelle, le prime volte cade dall’emozione.

Nella fattispecie si sta parlando di un ragazzo diciottenne, che ha fatto mosse, che ha impostato la sua vita in direzione del professionismo, perché il tennis diventi il proprio lavoro.
“Perché il tennis diventi il proprio lavoro”, questo è ciò che manca, rispetto ad una “prova”, provante appunto, di qualche anno “e poi vediamo come va”, vivendo l’esperienza ancora nelle fantasticherie di vedere se riuscirà a diventare un campione di tennis per la gioia dei genitori.
Ma è immaginabile un cuoco che quando sta per terminare un piatto viene preso dall’agitazione e rovina il piatto, o lo butta, o scappa dalla cucina? Così per un muratore che sta costruendo una casa, o un falegname che sta costruendo un mobile?

Se il ragazzo in questione vivesse il tennis come il proprio lavoro si sarebbe sentito fortunato nel poter chiudere la partita in una ora, perché avrebbe risparmiato energie per il giorno successivo, dove lo aspettavano come minimo due partite.
Se lo vivesse come il proprio lavoro, lo vivrebbe maggiormente nella contingenza, e quindi non tanto pensando alle classifiche sue e degli avversari (nelle fattispecie l’avversario era due classifiche meglio della sua), ma al fatto che si è iscritto ad un torneo e quindi principalmente l’unico obiettivo, l’unico traguardo che lo riguarda è a quel punto vincere il torneo, punto dopo punto, partita dopo partita. Così nessuna delusione o frustrazione se termina il torneo perché s’incontra un avversario che quel giorno gioca meglio.

Un tennista occorre sia un imprenditore, al quale piacciono le imprese, anche grandi, al quale piace relazionarsi con i collaboratori, al quale piace la scommessa e che quindi nei primi anni deve trovare i soldi per proseguire l’impresa che un domani darà gli utili e ripagherà i debiti.
Certo il tennista non è proprio un mestiere qualsiasi, ha particolarità e difficoltà parecchio differenti, e nella nostra società ormai sono mosche bianche ragazzi che cominciano a lavorare a sedici anni.

Per quanto riguarda i coach, occorrerebbe riuscire a vivere il lavoro come collaboratori dei ragazzi, spogliandosi di vesti educative che li farebbero ricadere in uno scolasticismo del “ti dico io cosa sbagli, come e cosa devi fare, come stanno le cose…”.
Occorre pensare a quanti ragazzi hanno grosse difficoltà a scuola e poi, quando vanno all’università, dove sono costretti a trovare da se le strade per superare gli esami, improvvisamente riescono.
Collaboratori di questi ragazzi, per giungere in ogni allenamento, in ogni match, a fare del tennis, dell’atletica accanto a loro, perché passi che non si è lì solamente per dirgli cosa devono fare.

Poi certo quest’intendimento occorrerebbe lo sentissero anche i genitori.
L’altra sera c’erano entrambe i genitori dei ragazzi (diciotto e venticinque gli anni dei ragazzi) a vedere il match: ma come possono far proprio il sogno, l’impresa, se hanno sempre lì sottolineato che in primis stanno perseguendo il sogno dei genitori?
Ma ci sono altri mestieri, lavori dove i genitori vanno a vedere e accompagnano i figli al lavoro?

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