Omaggio a Borges

 

Ogni traduzione è impossibile, a partire dall’impossibilità di trovare un nome che formerebbe un rapporto ontologico con la cosa. Per fortuna vi sono le poesie che sancendo come l’approdo per ciascuno sia la cifra e la qualità, palesano come sia impossibile tradurle, perché si perderebbe la metrica dei versi e delle rime, oltre che l’armonia fonica che lega le parole che le compongono.

E’ di qualche tempo fa l’acquisto di Elogio dell’ombra, raccolta di poesie di Jorge Luis Borges.

E’ bello leggerne qualcuna al risveglio, o quantomeno in mattinata, come viatico per una giornata che possa sostenersi sull’apertura all’Altro, che possa accogliere l’incontro, che consenta l’ascolto, che prosegua come poiesis, come fare, come produzione intellettuale.

Le poesie in questione sono con il testo originale a fronte.

Le poesie di Borges, come egli stesso ha passato la vita ad enunciare, sono difficilmente in rima, perché quando scriveva in apparente prosa il testo era comunque poetico.

Per questo motivo, ma soprattutto perché lo spagnolo è molto simile all’italiano, ci si può arrischiare in una traduzione.

Stamane la poesia in questione era Invocazione a Joyce (Invocación a Joyce).

La traduzione di Francesco Tentori Montalto dell’edizione Einaudi non è consona al testo originale, è troppo personale e buonistica, trasforma la bellezza dell’imperfezione in un’estetica conformista, fa risaltare il contenuto rispetto alla cifra, inserisce facilità spiccia che accontenta e toglie apertura al rilancio che verrà da parte del lettore. Come a dire che un testo è sempre da scriversi, si scriverà.

Ed ecco quindi questa traduzione, questo omaggio a Borges, questa invocazione.

 

Dispersi in disperse capitali,
solitari e molti,
giocavamo a essere il primo Adamo
che diede nome alle cose.
Per i vasti declivi della notte
che confinano con l’aurora,
cercammo (lo ricordo ancora) le parole
della luna, della morte, della mattina
e degli altri abiti dell’uomo.
Fummo l’imagismo, il cubismo,
le conventicole e sette
che le credule università venerano.
Inventammo l’assenza di punteggiatura,
l’omissione delle maiuscole,
le strofe in forma di colomba
dei bibliotecari di Alessandria.
Cenere, il lavoro delle nostre mani
e un fuoco ardente nostra fede.
Tu, mentre tanto, forgiavi
nelle città dell’esilio,
quell’esilio che fu
il tuo aborrito ed eletto strumento,
l’arma della tua arte,
erigevi i tuoi ardui labirinti,
infinitesimali e infiniti,
mirabilmente meschini,
più popolosi della storia.
Saremmo morti senza avere scorto
la biforme fiera o la rosa
che sono il centro del tuo dedalo,
ma la memoria tiene i suoi talismani,
i suoi echi di Virgilio,
e così nelle strade della notte perdurano
i tuoi inferni splendidi,
tante cadenze e metafore tue,
gli ori della tua ombra.
Che importa nostra codardia se c’è sulla terra
un solo uomo valente,
che importa la tristezza se ci fu nel tempo
qualcuno che si disse felice,
che importa mia perduta generazione,
questo vago specchio,
se i tuoi libri lo giustificano.
Io sono gli altri. Io sono tutti quelli
che hanno riscattato il tuo ostinato rigore.
Sono quelli che non conosci e quelli che salvi.

 

09 Agosto 2008

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