Il capriccio e il raccapriccio

 

Un bambino rifiuta categoricamente la frutta dall’età di tre anni, senza palesare presunti fatti traumatici, semplicemente dicendo che già l’odore lo infastidisce. Non va molto meglio con la verdure, ma in questo caso almeno non vi sono odori infastidenti. In generale comunque non gli piace sedersi a tavola e del cibo può fare tranquillamente a meno, chiedendo solamente latte e cioccolato mattina e sera, ed autogestendosi in maniera furtiva per quanto riguarda biscotti e merendine, budini e gelati.

Molti sono i bambini che manifestano verso il cibo insofferenza e rifiuto, alle volte inconsapevolmente con vomito, dissenteria, allergie.
Col passare degli anni questo atteggiamento può essere ripreso ed enfatizzato nell’anoressia, dove il cibo è rifiutato in tutte le sue accezioni, ed il capriccio è sostituito dalla rivendicazione, dall’estrema protesta.
Perché in molte civiltà e religioni, nelle svariate epoche, sono previsti giorni di digiuno?

Per il bambino in questione la manifestazione è dunque quella del capriccio e quindi del raccapriccio, fare i capricci raccapricciandosi della frutta.

Il rifiuto della frutta, del frutto, del frutto del lavoro.

Il rifiuto della sostanza, di ciò che è materiale.

Il lavoro da i suoi frutti. Non il lavoro come attività, come affaccendamento per comprarsi la casa, i vestiti, il cibo. Non il lavoro come sfruttamento delle risorse, come discorso statale della spremitura della mamma, della madre terra, della miniera da scavare, delle cose di cui godere (in spagnolo godere si dice disfrutar) per poter proseguire nel discorso consumistico che prevede il lavoro traducibile metonimicamente in beni, in oggetti, che intende l’economia come immagazzinamento di denaro e risparmi.

Il lavoro non è per vivere, né si vive per lavorare, ma la vita è nel lavoro, nella pragmatica della vita. Il lavoro è lavoro intellettuale.

L’approdo è il lavoro come viaggio. La riuscita è nel compimento. Il ritorno è in qualità, in cifra, in poesia.

Le risorse sono nel fare, nell’Atto di Parola. Per questo i dispositivi intellettuali, che si sostengono e rilanciano le risorse della Parola.

Fare che non va senza l’intraprendere, il raccontare, il progettare, senza l’incontro, il lapsus, il riso.

Dispositivi intellettuali perché il lavoro non sia un affaccendarsi, così che il progetto del facere non si rappresenti in facile e difficile. Il fare non è facile né difficile.

L’Altro non si può reclamare, non si può capricciosamente avere tutto e solo per se, quando si vuole, non si può accusare il simile per la mancanza dell’Altro, o delegare ad esso perché lo fornisca. L’Altro occorre evocarlo, occorre lasciare spazio al silenzio come eco della voce.

L’anoressia come sentiero dell’isteria, manifesto e annuncio del viaggio intellettuale. Rimanendo solo come un’icona, abusando della facilità di parola, il rischio d’accontentarsi di rivendicare rispetto ad un sapere salutistico: “Io parlo, faccio, non mi fermo, passo all’atto e me ne frego del tuo sapere che prevede un big-bang dal quale scaturirebbe un’energia che si trasformerebbe; guarda posso anche non mangiare e continuo a non fermarmi!”

La questione intellettuale non è quella della salvezza. Da cosa, da chi ci si dovrebbe salvare?

La questione intellettuale è quella della sanità, della vitalità come attributi della Parola Originaria, che non può essere né sana né malata, ma come ci ricordano proprio i bambini, solamente innocente, che non nuoce.

L’isteria abusa della rimozione per evitare la catacresi, l’abduzione che sancisce la Parola come Originaria, che si staglia sul proprio principio in quanto trinitario e tripartito: resistenza – rimozione – Altro / metonimia – metafora – catacresi.

L’isteria abusa di ciò che rende invidioso il discorso ossessivo.

Invidia come qualcosa di visibile, ma non imitabile né acquisibile.

 

03 Agosto 2008

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