La violenza dello psicofarmaco

 

Intervento al Forum Umanista La forza della non violenza – 1 Marzo 2008, Politecnico di Torino

 

E’ possibile continuare discussioni, argomentazioni, forum, incontri informativi, partendo dall’ipotesi che esista la malattia denominata ADHD?
Divertente Beppe Grillo quando dissacra il fenomeno ADHD, ma lasciare adito all’ipotesi che dinamiche di vivacità e distrazione, tipiche da sempre degli infanti, possano oggi essere divenute malattie da curare, non ci fa sentire quantomeno sciocchi?
Perpetuando la rivendicazione in maniera diretta, non si cade in una parola comunque vuota, che, come diceva Lacan, non fa altro che legittimare il padrone nella posizione che occupa?
E’ necessario rispolverare continuamente il detto “Non c’è limite al peggio”, ancora stupendosi di quanto possa essere stupido l’essere umano in certi suoi misfatti?
Insistendo sul versante delle informazioni, delle notizie, non vi è il rischio di ripetere un discorso oltre il quale occorre invece andare oltre?

Un discorso legato quindi alla forma, al formale, alla formalità, alla soluzione facile, alla pasticca di Ritalin.
Una bellezza delle forme, una bellezza standardizzata, una bellezza delle persone note prese come modello, delle persone famose che fanno notizia, scalpore, spettacolo, delle persone che sanno. La bellezza del museo, del mausoleo ove continuare a mettere in bella mostra il corpo, il corpo morto. Una bellezza legata al perfetto, collegata all’estetica intesa come chirurgia estetica, e quindi all’agire sul corpo rappresentato. Un corpo in forma, performante, competitivo.
Tutti significanti di adulti anestetizzati che non sentono la bellezza dell’imperfezione del gesto, della gestualità corporea e verbale dell’infante, e abituati a sedare il proprio disagio con lo psicofarmaco, non possono che somministrarlo anche al bambino.
Di fronte al problema si cerca la soluzione, invece che nell’articolazione del problema spostare la domanda, trovando ad esempio qualche intendimento sul perché ad esempio quella questione sia vissuta come insostenibile, insormontabile tragica malattia.
Da dove partire allora? Quale domanda occorre formulare?

Perché non si riesce a relazionarsi con il bambino? Perché non si riesce a ridere con lui? Perché si riesce a raccontargli delle storie, delle favole?
Qual’è lo stereotipo, l’ideale, l’idea, la forma dell’accezione Greco antica a cui si fa riferimento, a cui si è destinati e che non permette di cimentarsi nella relazione con il bambino?
Forse il godimento, l’istupidimento in cui si è immersi cibandosi della televisione? Cibandosi dei manuali che indicherebbero il giusto modo, la tecnica di comportarsi con il bambino?
E’ possibile che il non riuscire a relazionare con il bambino non trovi riverberi anche nel non riuscire a relazionare in altri ambiti: lavoro, famiglia, amicizie?
Quindi “Come riuscire a relazionare?” è la domanda che deve divenire urgente per genitori ed insegnati del bambino iperattivo.
Occorre abbandonare la domanda “Cosa fare allora?”, ed intendere “Come riuscire a relazionare?” non come comportamento da seguire “Devi fare come quello!”, ma indicare che il “Come” è la strada della relazione. Una relazione di parola, ricca di racconti, di metafore e metonimie. Perché l’autorevolezza che manca non è virtù dei genitori intesi come soggetti, ma della Parola dalla quale occorre siano parlati. La mancanza della mancanza assoluta, della differenza originaria, del due originario, cioè ciascun significante differisce, non può esistere se non differendo relativamente ad un altro.

Freud indicava l’educare, il politicare, lo psicanalizzare, come i tre mestieri impossibili.
Impossibili da imparare sul manuale, impossibili perché per riuscire occorre si attengano alla relazione impossibile, al malinteso che intercorre nella relazione tra chi parla e chi ascolta.
Per essere autorevoli nessuna capacità di dare risposte o comandamenti, ma solamente capacità di mantenere questo distacco, quest’apertura, questo ingenuo provocare l’insorgere di domande senza illazionare con intendimento provocatorio.
La questione dello psicofarmaco ai bambini indica come siano diventate tragiche e farmacologiche le difficoltà educative.
Bastano cinque minuti di campagna elettorale per intendere quanto poco relatori siano gran parte dei politici, quanto mortiferi, soporiferi, noiosi, siano i loro discorsi ormai imperniati, cicatrizzati nella dicotomia governo-opposizione, giusto-sbagliato, non siamo stati noi-sono stati loro.
Lacan definisce psicopompi (traghettatori di anime…assonante quindi un discorso mortifero) i facenti parte dell’apparato psicoterapeutico in tutte le sue accezioni, che con un discorso di sapere, di diploma, di albo dato per acquisito, intendono curare le malattie della mente.
Tracce Freudiane, come dice il nome, si rifà al letterato, allo scienziato, al prodigo, all’intellettuale Sigmund Freud. Rilegge il suo testo per trovare freschezza, rigore, vigore e novità, per tessere una teoria incessantemente intarsiata di aura narrativa.
Il termine psicoanalisi coniato da Sigmund Freud va elaborato.
Non c’è nessuna psiche da analizzare, ma la conversazione analitica va intesa come dispositivo di Parola Originaria, di parola viva e creativa. Il disagio testimonia una parola inceppata in uno scoglio mortifero, priva di quel soffio vitale, priva di quella capacità di sciogliere e dissolvere ciò che appare ostacolo insormontabile.
Noi di Tracce Freudiane viviamo la psicanalisi come un percorso artistico e culturale, nel quale si integrano altri dispositivi di Parola originaria: scrittura, laboratori, gruppi di lettura, interventi in pubblico. Il nostro intento può sembrare la trasmissione di questo viaggio, ma invece vi è per ciascuno l’urgenza, il piacere, la soddisfazione di cimentarsi nel rischio di parola in quanto rischio di riuscita (Freud chiamava tutto ciò ”la peste”).

L’incontro di oggi è per provare a dire qualcosa intorno al fenomeno della violenza.
L’etimo di violenza è la stesso di violare, cioè si tratta di non ubbidire, non attenersi a leggi scritte, a norme, a comportamenti ritenuti normali.
La questione si sposta immediatamente ad ambiti giuridici, alla disciplina del Diritto che nulla spartisce col giudizio come voto, come votazione del bravo bambino, il bambino giudizioso, il bambino che pensa, il bambino che opina, il bambino come soggetto che analizza ed esprime un’opinione. L’opinione può essere vera o falsa, quindi sempre falsa perché espressa da un soggetto, sempre soggettiva. Allora occorre essere oggettivi, scientifici, ma anche lì bell’abbaglio, perché la verità è dell’Altro, dell’Inconscio in atto nell’articolazione delle questioni, nel loro dirsi, nel loro racconto.
Lo psicofarmaco ai bambini come atto di violenza, ma nei confronti di chi? Ma da parte di chi? Di un soggetto che fa ad un altro ciò che non vorrebbe fosse fatto a lui? Di un soggetto che pensa di sapere ciò che vuole per se e quindi lo propone ad un altro soggetto-oggetto, al figlio, all’alunno, all’utente?
Tutto ciò è posteriore, è conseguenza di un discorso già violento, già mortifero, che ritiene il bambino iperattivo non normale, non normalizzabile.
Ogni volta che si passa all’atto si è violenti, si conclama un discorso già violento. Solamente l’atto di Parola, in quanto atto mancato, equivoco, che non ci appartiene, solamente l’irrompere del Kairos e della sorpresa conduce verso la traccia della verità, verso l’autorevolezza.
Tutti concordano a dire che il bambino, malgrado tremendamente perverso e polimorfo (come lo definiva Freud), sia innocente, non sia cioè colpevole. Ma questa colpevolezza non appartiene al bambino, è prerogativa degli adulti, è il senso di colpa come indice di un ambito dove la legge è già scritta.
Il bambino è innocente perché non nuoce. Perché la sua parola non è così facilmente scissa da lui, dal balbettio e dal gesticolare, testimoni d’una lingua babelica sempre in costruzione, che spazza via l’illusione d’una possibile lingua, d’una grammatica universale della quale molti linguisti sono ancora in cerca.
Una parola quindi che non nuoce, che non è mortifera.
Il bambino sarebbe o non sarebbe colpevole di che? Del peccato originale? Ma il battesimo non è bastato a espiare questa colpa?
Non è il peccato che è originario, è la Parola ad esserlo. Parola originaria e l’Altro, parola che non esclude il terzo, l’ospite, lo straniero, lo straniante, parola in divenire.
Il sacramento del battesimo nulla ha di sacro se è solo rito scaramantico di augurio e previsione, di tutela da parte di Dio. Già Giovanni Battista (Luca 3,7-9) ammoniva i battezzati, dicendo loro che con il battesimo dovevano abbandonare le sicurezze religiose legate all’appartenenza al popolo eletto.
Dispositivi di Parola perché la vita si colori di efficacia, di autorevolezza, di pragmatica, di ironia, motti di spirito.
Se nella vita manca l’Altro, manca la Parola autentica, vige la rappresentazione, dove pure Dio è rappresentato ed in nome di Dio si giunge alle guerre ed alle violenze.
L’Altro è assolutamente irrappresentabile, imprevedibile nel come e quando si manifesterà.
L’Altro che non segue le leggi intelligenti e quindi pessimistiche, né quelle volenterose e quindi ottimistiche.
L’Altro che si sente anche quando il parlante non s’accorge, l’Altro che è efficace anche se chi è in ascolto non se ne avvede, proprio perché quando è l’Altro a parlare non è una vicenda di soggetti, una vicenda che attiene al visibile, alla visione.
L’Altro non è il sembiante. Il bambino per noi sembiante quando è puntuale a sottolineare i problemi, le fantasie che in quel momento ci riguardano, dice quello che non vorremo dire, sollecita sintomi inaspettati.
Il bambino che interagendo con gli adulti può iperattivarsi e diventare irrequieto.
Sedando (quando possibile) un bambino con lo psicofarmaco, non lo si accoglie come sentinella d’una legge scritta che può essere o non essere violata.
Sedare, violentare il bambino, non accoglierlo come sembiante, è come proseguire in questa parola violenta.

Lacan diceva che il tentativo di relazione con discorsi psicotici era una palestra formidabile per chi intendeva divenire analista, perché lo costringeva ad abbandonare ogni sapere, ogni rappresentazione di come potrebbe essere l’intervento efficace, errore che poteva magari permettersi quando di fronte trovava la nevrosi. Perché chi si trova ad avere figli non potrebbe intendere anche in questi termini la relazione con il bambino? Non il bambino da sedare ma lui a doversi mettere in gioco?
Come fare a saperci fare con il sembiante?
Cosa esige il sembiante?
Esige che la legge, la giustizia sia della Parola, che sia una legge sempre da scrivere, sempre da articolare. Esige la musica del racconto, esige il contrappunto come indice artistico, indice che delle questioni si stanno facendo novelle.
Esige che ciascuno si trovi, si sperimenti, si metta in gioco nei dispositivi di Parola, dove l’unica cosa che si cerca di garantire è il sembiante. Esige che ciascuno si affidi alla parola e non ai consigli, alle istruzioni per l’uso, che non demandi al comitato, che non si metta al sicuro in ogni qual forma di appartenenza associativa.

Cos’è dunque la legge?
La legge può essere uguale per tutti? Va richiamata la formulazione di Freud in merito all’inconscio: “E’ collettivo nell’accezione che è a disposizione di tutti”.
La norma è uguale per tutti.
La legge è rivolta a tutti nella sua astrazione, e quindi non contemplante tutti i casi possibili.
L’attività legislativa è ritenuta ingiusta perché non prevederebbe tutti i casi possibili, ma è meglio dire imperfetta, perché sarebbe ingiusta se contemplasse tutti i casi possibili, togliendo l’altra possibilità (vedasi le dittature).
Astrattamente si concepisce un semaforo o una rotonda per risolvere i problemi del traffico, per regolamentarli, lasciando inteso che ciascuno ha però una sua storia nell’incrociare quella rotonda, una storia da scrivere ciascuna volta.
Spesso si sente dire che la legge non può che vietare, per cui limiterebbe la libertà. Ma quest’accezione di libertà non esisterebbe senza quella di schiavitù ad una legge, ad un obbligo.
La civiltà moderna nasce con la città, l’etimo è lo stesso.
Nasce con la possibilità dei cittadini di determinarsi liberamente l’uno nei confronti dell’altro tramite il contratto. Nella contrattazione la libertà, nella città la sessualità, l’odio, l’apertura.
Lo status è regolato dal potere, il contratto dalla legge: una legge che si scrive ciascuna volta.
Ed oggi vi è purtroppo una continua attività normativa, tutto è normalizzato.
Come esempio prodotti agricoli che non vengono commercializzati, che vengono mandati al macero perché non rispettano le normative dimensionali, di colore, previste dalla Comunità Europea.
Ad esempio l’entrata in vigore in Italia nel 1997 della legge 59, detta di delegificazione, atta a togliere valore, ad eliminare le falle normative, le leggi non scritte del buon senso, dell’etica, della convivenza.
Appellarsi allo stato di diritto per rimanere nel godimento d’una presunta libertà, intesa come il tagliar fuori la sessualità del contratto e della relazione.
Ecco perché l’importanza del pagamento della seduta analitica, per rimarcare l’importanza del contratto. Pagamento dopo ogni seduta perché purtroppo c’è chi non è puntuale nell’ottemperare ai contratti commerciali. Chi nella vita fa il furbo venendo meno ad un contratto è perché vive l’attività commerciale ancora nella dimensione dicotomica, per cui vive l’altro come il tiranno a cui non obbedire ma fottere. Lo fotto, godo e taglio fuori l’Altro.
Importanza del pagamento della seduta perché ogni impresa non può eludere la dimensione intellettuale, la dimensione del contratto, la dimensione della libertà nella Parola.
Fottere il simile è quindi fottere l’Altro rappresentato.
Rappresentare è rendere presente, assolutamente differente dal giocarsi le questioni ciascuna volta, giungere alla legge che si scrive in atto, nel divenire, nel gerundio, cioè non legata alla cronologica temporalità.
Importanza del contratto perché attiene al ritratto, al trattato, al tratto delle cose che si scrivono; altrimenti la contrattura emozionale, il sintomo.

Per concludere un preambolo, una suggestione per una nuova storia, per una nuova argomentazione: molte malattie si accompagnano ad un sistema immunitario non funzionante, e quello dei bambini è parecchio instabile.
L’etimo di immune riferisce di qualcuno esentato da obblighi, contrariamente a chi era mune, cioè obbligato.
La questione è nuovamente quella della legge.
La legge della Parola, l’immunità come attributo della Parola Originaria.
Nessuna sanità nel sistema, nella sistematizzazione, nello stare nell’insieme, nel prendere la cosa per il tutto, nel prendere ogni uno invece che ciascun uno, l’uno che differisce da se, il due come originario, come viaggio della Parola Originaria.

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