Fondamentale per Il cielo sopra Berlino è la collaborazione per testi e monologhi dell’amico di Wenders, lo scrittore austriaco Peter Handke, che tra le altre cose inserisce nel film la figura di Omero.
Wenders narra dei parallelismi che sorprendentemente trova spesso con Handke, scrittore poliedrico con giovinezza avanguardista.
Anche Omero è importantissimo per Wenders, in quanto autore del suo libro preferito, l’Odissea.
Handke vive l’importanza della poesia, la poesia come traccia perché si possa procedere dal futuro, e coglie come non si possa nella vita eludere il fare, la Poiesis, la sessualità (la madre depressa si era suicidata).
Handke, poeta che ai tempi della caduta del muro di Berlino, intollerante verso le fiumane di luoghi comuni detti e scritti in quel periodo, scrive tutt’altro, cioè tre saggi intorno e sul fenomeno della scrittura.
Handke, del quale Wenders come elogio sottolinea particolarmente il ben scrivere in lingua tedesca, la capacità di renderla bella.
Iniziando la visione de Il cielo sopra Berlino è come iniziare a leggere un romanzo breve di Kafka, sogno, racconto, apertura infinita, così che dopo pochi minuti giunge qualche idea per scrivere.
E’ come l’inconscio fosse in atto, l’inconscio che Freud definisce magistralmente “E’ collettivo nell’accezione che è a disposizione di tutti”. E quando è in atto ciascuno può scrivere infinite storie.
Il cielo sopra Berlino è un film girato senza copione, iniziato come atto d’amore di Wenders, di ritorno dall’esperienza statunitense, per la città di Berlino, per il regista tedesco città non tedesca, che lo toglie da una fastidiosa condizione d’appartenenza, ponendolo in quella occorrente perché ci sia scrittura.
Berlino che Wenders paragona a New York per la capacità di ironia.
Wenders ha in mente di iniziare Fino alla fine del mondo ma non ci riesce, si inceppa. In quel periodo stava leggendo Rilke, nelle poesie del quale trova parecchie figure di angeli, figure reperite anche in architetture e monumenti berlinesi.
Dopo i primi consulti con Handke pensa che comunque il titolo migliore sarebbe Wings of Desire (le ali del desiderio), ma viene preferito Il cielo sopra Berlino (Der himmel uber Berlin) per ragioni fonetiche.
Alla fine di questo folle film, dove vengono impiegati come attori anche persone dello staff cinematografico, dove Wenders attraversa momenti di crisi chiedendosi “Cosa sto facendo?”, lo stesso Wenders si stupisce di quanto sia risultato totalmente inconscio il processo produttivo, e di quanto il film sia risultato surrealista.
Si accorge anche che non lo avrebbe realizzato senza le sue guide spirituali, Tarikosvkij, Truffaut, Ozu, ai quali il film è dedicato.
Così Wenders:
– Tarikosvkij si è avventurato come nessun altro nel territorio metafisico.
– Ozu ha amato i suoi personaggi come nessun altro.
– Non esiste linguaggio più delicato di quello di Truffaut.
Quindi Il cielo sopra Berlino un elogio alla vita, nella quale perché si possa veleggiare occorre il desiderio rispetto allo spiritismo.
Spiritismo nell’accezione moderna, new age, di rivolgersi allo spirito perché si sente la vita troppo pesante, troppo materiale, senza accorgersi di perpetuare lo stesso discorso, di spolverare il vecchio discorso metafisico, trascendente, che rappresenta comunque una realtà dalla quale si può anche pensare di estraniarsi. Così, se da un lato il desiderio viene schiacciato da una morale, da un super-io, da un bombardamento di immagini, da un tempo cronologico ipercinetico, dall’altro viene tagliato via da un buonismo angelico assolutamente serio, seriale di frasi in successione, triste, opaco, d’un bianco e nero privo dell’eleganza che solitamente lo contraddistingue.
Gli angeli senza emozioni che non riescono a non fare la cose per finta, senza viverle, usano il linguaggio come meta linguaggio, come strumento per dire sulle cose, e quindi tutto gli appare finto, prevale la finzione rispetto all’equivoco, il sembiante è riducibile, non c’è odio.
Gli angeli osservatori, raccoglitori, collezionisti, il cui sesso non ci è dato a sapere in quanto presi in un piacere voyeuristico. Gli angeli selvaggi, isolati nella selva, custodi del segreto di Pulcinella (si pensi oggi alla pubblicazione presunta sensazionale del “Segreto”), a cui non riesce che restare alla parola intesa come frase, al sapere già acquisito (l’ex angelo Peter Falk che a Damiel, euforico per essere diventato uomo, risponde: “Qua non c’è nulla da sapere, occorre darsi da fare, occorre arrangiarsi”), a lasciare che sia, a lasciare il tempo che scorra, in una condizione di ignavia ed inattività.
Chi considera invece l’irruzione del tempo, del taglio, della politica dell’Altro, dell’inconscio, estrapola Marion durante le riflessioni seguite alla chiusura del circo “Il tempo guarirà tutto, ma che succede se è il tempo (cronologico) ad essere malato?”
Perché la vita, la pulsione procede nell’immanenza della Parola originaria, trascendentale in quanto propone un passato che proviene dal futuro, che si scrive nel futuro, un passato che non è mai stato. Una frase nel finale del film recita “Basta con il mondo dietro il mondo!”.
Solo nella Parola è possibile parlare di salto quantico, di simultaneità. Le cose procedono nella Parola.
Chi promuove la Parola come originaria evidenzia come fondamentale sia nel film il vecchio Omero, che alcune critiche considerano sempre custodito dall’Angelo Cassiel.
Ma non è l’angelo ad essere custode di Omero, bensì è l’angelo che non si stacca da Omero perché lì respira la vita, il racconto.
Il cantore Omero rimpiange i tempi in cui si dava maggior importanza agli ottusi, ai folli.
Il vecchio Omero dice ai giovani “Senza il cantore si perde l’infanzia”, a ribadire l’importanza della memoria in atto, di come l’infanzia non sia mai stata ma occorra trovarla, inventarla.
Infanzia anche come le domande che scorrono nel film, per i bambini non comunque problematiche “Chi sono io? che senso ha il mondo?”.
Gli adulti non escono dal tunnel prendendo di petto queste domande, ma occorre che il labirinto sia la condizione per l’equivoco e quindi per il riso.
Il vecchio Omero del quale si riporta un inciso tanto bello quanto essenziale “Narra musa del narratore l’antico bambino gettato ai confini del mondo e fa che in lui ciascuno si riconosca. Col tempo quelli che m’ascoltavano sono diventati miei lettori e non siedono più in circolo, ma ciascuno per se e nessuno sa nulla dell’altro. Un vecchio sono io di voce stridula, ma il racconto si leva ancora dal profondo e la bocca lievemente aperta ripete con forza e facilità una liturgia dove nessuno va imparato al senso delle parole e delle frasi”.
Racconto quindi essenziale anche per gli adulti. La dimensione narrativa per dissolvere la pesantezza delle cose e del mondo intesi come tali.
I bambini sono nelle cose, costruiscono il mondo, giocano anche con gli angeli senza sacralizzarli, senza temerli, senza demandare ad essi.
Gli adulti possono continuare a giocare con le macchinine, ma questo non li soddisfa più, e occorre trovino soddisfazioni nel lavoro.
Quando questo non accade è perché un ideale di se o del mondo va di pari passo con l’immobilità, il procrastinante girare in tondo.
Dispositivi di Parola originaria come l’analisi, come un cineforum, come la scrittura (che appare all’inizio e alla fine del film), perché ciascuno nel proprio lavoro, nelle proprie attività, trovi il piacere di mettersi in gioco, di narrare, di disegnare il futuro, di sorprendersi, di compiere lapsus e riderne, di prendersi in giro, di incontrare l’ironia.
Questo film potrebbe portare a chiedersi cosa rappresenti la figura dell’angelo, rintracciabile in svariate civiltà e religioni. Perché gli umani giungono ad inventarla e a riproporla?
Se per Altro intendiamo l’inconscio, e diciamo che l’Altro non è il sembiante, questi angeli, piuttosto che i messaggeri di Dio, possiamo intenderli come messaggeri nell’accezione di sembianti con i quali occorre riuscire a relazionarsi per poter evocare l’Altro.