Nelle volte che è capitato di andare all’IKEA mai era stato tentato un progetto di cucina, perché negli anni passati i modelli proposti erano pochi e parecchio scarni. Oggi la gamma è ampliata, arriva a comprendere tipologie notevolmente moderne, e su questi modelli verteva l’indagine per capire se fosse conveniente acquistarla appunto nel megastore svedese.
Le cose sono cambiate, i commessi con la camicia gialla non sono più a disposizione, come capita in genere in un mobilificio, per disegnare a mano o con il computer il prospetto della cucina.
I commessi sono infastiditi ad indirizzarti verso un modulo la cui compilazione prevede che quasi potresti anche tu essere un commesso IKEA, potresti fare domanda di lavoro in un mobilificio come arredatore. Compilato il modulo ti dovrebbero assistere, se pur di malavoglia, per i dettagli, ma a questa fase non siamo giunti, perché a nostra volta infastiditi siamo usciti.
Nello stabilimento IKEA i commessi trasmettevano intolleranza.
Qualcosa di differente rispetto agli anni scorsi, quando palesavano stanchezza lavorando senza respiro tra il rumore dell’ingente folla.
Era la primavera dell’anno 1990, come ora stavo scrivendo un componimento all’epoca chiamato tema, per la precisione quel giorno tema dell’esame di maturità.
L’argomento scelto fu quello d’attualità, dove s’invitava ad immaginare il futuro, quando la rivoluzione tecnologica e le applicazioni dell’informatica come computer e robot, ipotetici proseguimenti della rivoluzione industriale, avrebbero tolto lavoro agli umani invece che crearne.
Come fornire lavoro ai cittadini del mondo occidentale bisognosi di denaro nel sostentamento del discorso consumistico? Cosa avrebbero fatto, come avrebbero occupato il loro tempo?
Oggi il mondo occidentale si trova di fronte ad una crisi dove il maggior problema che si profila è l’aumento della disoccupazione.
Ricordo un convegno sull’industria e sull’arte, dove industriali di provincia, adoperando la parola arte solamente per denotare eccentricità, si lamentavano perché, dopo essersi rivolti all’assunzione di artisti per rinnovare stabilimenti e disegni dei loro prodotti, gli utili dell’azienda continuavano a non risalire. Nell’occasione si lamentavano con maggior fervore perché il convegno era ospitato in un laboratorio artistico.
Ma l’utile, il plus ultra di dimorare in un discorso artistico non è di ordine algebrico, i conti non tornano mai. Il trovarsi ciascuno a suo modo artista, sospesi tra sogno e racconto, sta ad indicare che questo plus ultra è la riuscita intellettuale dove le cose non si quantificano ma si qualificano, dove è possibile veleggiare con un’energia che è propulsiva in quanto potenziale, dove la pulsione non è rappresentabile e quindi non è costrizione a fare, ma è vita in quanto eternità il cui ritmo non è il ritornello del registratore di cassa, ma il contrappunto, il ritmo degli incontri, degli accadimenti, dei lapsus, degli atti mancati.
La questione del ritmo, quindi la questione del tempo.
Gli umani quando hanno tempo libero, quando sono in vacanza, o si annoiano o corrono freneticamente, e non è nel portare all’estremo l’assolutismo del fai da te la soluzione per occupare il tempo libero.
I commessi di IKEA registravano ciò, e manifestavano la necessità della relazione, l’occasione per la scrittura dell’esperienza che tolta gli è stata.
Se invece questo fosse dovuto perché IKEA possa assumere meno dipendenti, l’auspicio è che la crisi prosegua, che per i nuovi disoccupati possano esserci possibilità che il discorso imprenditoriale, di bottega artigiana, prenda il posto di quelli che hanno fagocitato il secolo scorso, il consumismo sfociante nel conforme e standardizzato supermercato, e il comunismo come garanzia d’immobilismo ed assistenzialismo.