Un’accezione orientale di crisi

 

Torino, 26.11.2009 – Libreria Legolibri – Intervista a Giuseppe Jiso Forzani

 

Giuseppe Jiso Forzani ha studiato filosofia all’Università di Genova e ha vissuto dal 1979 al 1987 in un monastero in Giappone.
Monaco buddhista zen, ha operato nell’ambito della comunità religiosa “Stella del mattino” di Lodi.
Tiene corsi di dialogo interculturale presso l’Università di Urbino. Ha curato la traduzione italiana di alcune opere di Dogen.
Con Luciano Mazzocchi ha scritto i quattro Vangeli secondo lo Zen.
E’ autore della voce “Filosofia giapponese” per l’Enciclopedia filosofica di Bompiani.

 

GD – Intendo questo incontro una sorta di preambolo al Convegno che ci sarà tra quindici giorni in questo stesso posto, il Convegno Annuale dell’Associazione Tracce Freudiane, che avrà il titolo A ciascuno la sua crisi. Un titolo che quando formulato atteneva a questa crisi economica, forse meglio dire finanziaria, che pare in via di superamento. Crisi, termine divenuto alquanto mediatico che si tenterà di elaborare in alcune accezioni.
Invitai anche Jiso Forzani, che però per questa data aveva già un appuntamento. Ho approfittato comunque dell’occasione della sua presenza oggi a Torino, del suo intervento questa mattina a Torino Spiritualità, ed egli si è prestato a continuare la testimonianza qui con noi.
Lui è monaco zen, le precisazioni ce le darà lui stesso, magari in una breve storia di presentazione, aggiungendo quindi qualcosa a come la crisi sia vissuta, interpretata ed intesa in oriente.
Quindi lei nasce a Genova, poi ha frequentato anche Torino….

JF – Nasco a Genova parecchi anni fa, ma innanzitutto ringrazio per l’invito e per la vostra partecipazione a questo incontro.
Parlare di se è stimolante perché è come una forma di narcisismo a cui è difficile sottrarsi, cercherò quindi di ridurre al minimo l’aspetto narcisistico e dare alcuni spunti della mia storia, non perché sia particolarmente interessante, ma perché si inserisce in un quadro più ampio, nel quale una serie di circostanze hanno fatto sì che io abbia incontrato dei momenti storici di crisi, la cui commistione con una crisi più generale, sociale, ha fatto sì che io in qualche modo sia qua a parlare.
Sono nato a Genova nel 1949, quindi quest’anno compio sessant’anni, che di per se è già un elemento di crisi. La serie di vicende che mi portano a parlare come monaco buddhista zen, ma da occidentale al cento per cento, che ha avuto l’educazione completamente all’interno della formazione occidentale, in un periodo dopo la guerra nel quale anche il marchio religioso nell’ambito della chiesa cattolica è stato molto forte, trovano senz’altro un grande evento nel ‘68 anno della mia iscrizione all’università.
Questa mattina parlavamo, nell’incontro di Torino Spiritualità, della mistica: ecco io credo che il periodo del ’68, durato pochissimo, forse venti giorni, sia stato un’esperienza di mistica collettiva, da distinguere da quella che si contraddistingue ad esempio, come ancora oggi un ministro diceva riferendosi a non ricordo quale manifestazione, come qualcosa di degenerativo del ’68. A me questo non interessa, ma è importante rilevare che quello è stato un momento collettivo di rottura, mistico, perché totale e non settoriale con l’esistenza, con la propria esistenza: questa è stata la grossa rottura.
Poi dalle esperienze mistiche deriva ciò che deriva, sappiamo di alcune che hanno prodotto santità e altre degenerazioni. Mi preme rilevare che situazioni di rottura come il ’68, come la Rivoluzione Francese, come certi momenti della Rivoluzione d’Ottobre, dove si è rotto uno schema e non se n’è formato un’altro, sono esperienze mistiche.
La radicalità della crisi è la messa in discussione di tutto, e quello che fa pensare è che la crisi di oggi sia soltanto una crisi a metà, una crisi più o meno pilotata per evitare di andare fino in fondo alla crisi, per recuperare lo schema precedente alla crisi, un certo modo di produzione, un certo rapporto con l’economia, con il progresso, con lo sviluppo.
Di fronte alle crisi ciascuno reagisce a modo suo. Nel mio caso coincideva con l’esperienza particolare della fine delle scuole, cioè la fine degli ultimi due anni di superiori presso un collegio di Moncalieri, un collegio molto rigido e molto ipocrita. L’uscita da quel tipo di ambiente per quello universitario, che stava invece esplodendo, ha scaturito una forte rottura che ha dato vita a nuovi impegni: subito quello politico, durato fino a quando anche il sistema politico è andato in crisi, o quantomeno mi sono accorto che stava prevalendo il tentativo di riprodurre in maniera ancora più schematica vecchie ideologiche strutture societarie.
Quindi ho abbandonato l’attività politica e sono andato in India. In quel periodo questo era un cursus abbastanza comune se pur minoritario, prendendo, a differenza di oggi, un treno da Milano e arrivando in India dopo 15 giorni di treni ed autobus, avendo la possibilità di sperimentare l’attraversata del territorio.
La possibilità di spostarsi via terra in modo abbastanza libero, semplice, poco dispendioso, è stata considerata da me sempre un segno di libertà, mentre oggi siamo enormemente meno liberi, e quindi, se vogliamo andare in India, siamo praticamente costretti a prendere un aereo.
Ed in India un’altra grossa crisi, dovuta all’incontro con tutta un’altra vita, in un rapporto non da turista ma da viandante che non aveva niente di più interessante da fare. Lì ho incontrato un rapporto diverso con lo spirito, inteso non come una dottrina, una parte separata, ma qualcosa di molto profondo e intenso. Da lì è nato il mio interesse per lo yoga e poi per il buddhismo.
In seguito sono tornato in Italia, a Torino, tramite amici che avevano aperto un centro dove si praticava la meditazione zen. Poi sono stato dieci anni in un monastero giapponese, dal quale sono tornato con una sorta di legittimità a presentarmi come monaco buddhista zen, essendo però una persona occidentale, formata, educata, che ragiona con categorie, con ermeneutiche tipicamente occidentali.
Da questo punta di vista la mia crisi è permanente, una persona con una formazione occidentale ma che si rifà continuamente come traccia di orientamento nella vita a quella che, chiamiamola pure religione, anche se il termine può essere opinabile, è nata, si è sviluppata e quindi si è espressa in luoghi e culture dell’oriente: prima in India, poi Cina, poi in Giappone, con lingue scritte e parlate completamente differenti dalle nostre.
Crisi permanente che è il rendermi conto che non sono più completamente occidentale, ma nello stesso tempo che non sarò mai completamente orientale. Questo prefigura la novità, condivisibile ormai da molte persone, di poter vivere all’interno della propria esperienza il dialogo, l’incontro, il confronto, lo scontro tra diverse istanze che si devono conciliare nella vita di una persona.
In questa crisi però io sto bene, non voglio sfuggire, perché la ritengo molto fertile anche se obiettivamente problematica, perché mi obbliga continuamente a mettere in discussione la mia identità, quella cosa che uno crede di avere ma poi si accorge di non sapere esattamente cos’è. Come dicevamo questa mattina, io so che sono quello che sono, ma cosa sia quell’essere che sono obiettivamente non lo so, o meglio non lo so definire; tutte le volte che provo a definire l’identificazione di me con me stesso mi accorgo che è mancante di qualche cosa o è chiusa in uno schema che non le rende giustizia.
Il termine crisi deriva dal greco Krino, che vuol dire giudicare, quindi è un continuo rimettere in discussione e riesaminare se stesso, il proprio rapporto con le cose, la realtà.
In questo mi è guida e sostegno soprattutto lo zazen, pratica che nello zen ha una forma particolare, cioè quella di stare seduti in silenzio, abbandonando qualunque forma di determinazione intellettuale e psichica, per semplicemente vivere l’esperienza dell’esserci nella sua essenzialità, cioè un ripartire continuamente da zero. Questo è per me il punto forte che ricavo da tutta l’esperienza, dal percorso di vita, perché ripartire da zero vuol dire almeno la possibilità teorica di rinnovarsi completamente e rimettere tutto in discussione.
La crisi che stiamo vivendo è una crisi abortita, perché solo potenzialmente è l’occasione di rimettere in discussione un sistema, un processo economico, culturale, di orientamento della vita individuale e collettiva, cosa di cui l’occidente ha estremo bisogno.
Occidente che oggi è come l’oriente, perché l’orientamento abbraccia tanto l’oriente quanto l’occidente, al punto che il Giappone, che ha come etimo “la radice del sole”, che è il più orientale dei Paesi perché più a oriente del Giappone c’è solo l’Oceano Pacifico, è uno dei punti forti della civilizzazione occidentale, a livello economico, ma anche a livello oramai culturale.
Questa visione globale è oggi in crisi, non solamente in senso economico, ma anche nel senso dell’esserci e del vivere in questa prospettiva del progresso e delle mete che la cultura occidentale propone, che però non sembrano dare quella soddisfazione, quell’appagamento che promettevano.
Ci si augura che non ci sia bisogno di giungere ai 60 milioni di morti della seconda guerra mondiale per sfruttare una crisi e considerare cosa non va in questo sistema.
Questa crisi poteva essere l’occasione perché ha fatto tremare dalle fondamenta qualcosa, ma sembra che l’unica idea venuta in mente per superare la crisi sia riregolamentare la baracca continuando nella prospettiva di crescita, in questa idolatria della crescita, idolatria del consumo, idolatria del benessere che conosciamo tutti bene. Punti che andrebbero messi in discussione, perché la via del successo, la realizzazione di determinati obiettivi, non si è rivelata fondamentalmente benefica per l’integrità dell’essere umano, che progressivamente perde una parte di se, la parte spirituale, senza la quale l’uomo credo non sia completo.
La soddisfazione dei bisogni, la proliferazione dei bisogni, la creazione artefatta di bisogni da soddisfare, implica un mortificamento spirituale che tarpa una parte fondamentale della vita umana.

GD – Quindi lei diceva che sta bene nella crisi permanente in cui si trova…

JF – E’ uno star bene lieto, è quello che mi da la misura dell’essere vivo.

GD – A proposito invece del vuoto. A proposito del suo libro I Fiori del Vuoto, in occidente si sente dire spesso che quando le cose non vanno è perché si sta girando a vuoto, girando in tondo. Il vuoto nell’accezione fisica è togliere l’aria, togliere la gravità. Come dire dunque qualcosa del vuoto dell’esperienza orientale, come contestualizzarla?

JF – Questo è un punto importante.
Continuando a usare queste categorie un poco grossolane oriente – occidente, si può senz’altro dire che la riflessione filosofica occidentale ha lavorato molto poco sul vuoto.
Il vuoto è sempre stato concepito come privazione, come mancanza, come assenza, come vertigine, come negazione di qualche cosa, e questa non è assolutamente l’esperienza dell’oriente, in particolare del buddhismo, in particolare di una grossa corrente del buddhismo, quello Mahayana, che dall’India ha travalicato in Cina, in Tibet, in Giappone, in Corea, che invece con il vuoto, del vuoto, sul vuoto ha ragionato, ha sperimentato, lo ha valorizzato. In questa accezione il vuoto nasce come numero, è lo zero del linguaggio sanscrito Cunya, numero che separa i numeri positivi da quelli negativi. Zero che diventa poi un numero arabo Sifr, una immaterialità non negativa.
L’oriente ha elaborato diverse concezioni del vuoto: nella Cina Taoista il vuoto è il vuoto di questo bicchiere, è il valore intrinseco di questo bicchiere che svolge la sua funzione di bicchiere in quanto vuoto perché lo posso riempire.
Il pensiero cinese è un pensiero efficientissimo, pragmatico rispetto a quello indiano, più concettuale, dove il vuoto è un’assenza di sostanza, una deontologizzazione del fenomeno.
Per il buddhismo in particolare, qualunque fenomeno, ivi compreso la cosa che chiamo Io, non ha una sostanza che lo costituisce, ma è costituito dall’aggregarsi di tutte le parti che lo compongono momento per momento, ed quindi intrinsecamente vuoto, non è vuoto perché gli manca qualcosa, ma anzi proprio questa vuotezza è ciò che permette la modificazione del fenomeno, che altrimenti sarebbe cristallizzato. Quindi soprattutto nell’accezione indiano buddhista è proprio la vuotezza di sostanza di ogni cosa che permette alla realtà di essere quello che è, senza essere assolutamente una negazione, una privazione, un depauperamento, ma è mutatis mutandi la possibilità della pienezza di ogni cosa. C’è una famosa enunciazione che dice: le forme sono vuote, il vuoto delle forme.
Questa mattina dicevamo in riferimento alla Mistica, che è un termine che nasce come aggettivo, che poi soltanto nel XVII secolo diventa sostantivo, ed indicava l’esperienza mistica del mistero, del silenzio, dell’indicibile, non come oggettivizzazione di qualche cosa. Lo stesso vale per il Vuoto, per lungo tempo e per molti autori usato solo come aggettivo, da cui i fenomeni sono vuoti, la realtà è vuota, è vuota di sostanza, non ha nulla che vi consista; questa è una visione molto diversa da quella occidentale che invece sostanzializza il fenomeno e l’ente, fino a sostanzializzare Dio. La concezione di liberazione del buddhismo è la scoperta che invece Dio è vuoto, inconsistente, in continua trasformazione e mutamento, che io sì continuo a dire Io, ma l’io che dice Io non è mai lo stesso, che quel grumo sostanziale non c’è, non è. Questa non è una perdita d’identità, uno smarrimento di se, ma è anzi la porta del risveglio e della liberazione.
Si tratta quindi di venire a contatto con un modo di vedere le cose completamente diverso.
Noi usiamo il termine “ vuoto ”, ma si potrebbero trovare termini più adatti, meno impressionanti per la nostra sensibilità. Qualcuno preferisce non tradurre, come quando non si traduce il termine Cristo ed anche in Giapponese si dice Cristo. Forse si potrebbe pensare in futuro a termini propri della lingua, la traduzione connota sempre l’impressione legata ad altre sensibilità.

GD – Lei parlava prima di questa pratica chiamata zazen, come parlava di questa esperienza mistica che non sarebbe ontologizzabile nella Mistica.
Noi potremmo parlare così in riferimento alla psicanalisi, che non esiste se pensata come qualcosa di ontologico, ma definibile come esperienza di Parola Originaria. Oltre alla classica conversazione sul lettino, che poi oggi spesso non è neanche più sul lettino, ci sono altri dispositivi come ad esempio la scrittura, o gruppi di lettura e studio.
Il mio incontro con Jiso Forzani è avvenuto tramite libri che lui ha scritto, che me lo hanno fatto scoprire come intellettuale finissimo, come notevole scrittore.
Soprattutto in momenti di difficoltà ci si rivolge verso la scrittura come attività, come risorsa per non pensare, cioè per non rischiare di cadere in quella situazione innanzi richiamata e definibile come girare in tondo: lo zazen dunque che cosa è? Può dirne qualcosa?

JF – Sì certo, qualcosa si può dire, ma è come dire cos’è nuotare, scrivere un manuale sul nuoto ma se non provi non lo saprai mai. E’ qualcosa che si fa con il corpo, non si fa con il pensiero né è in rapporto con il pensiero, è imprescindibile che sia fatta con il corpo, così come nuotare.
Za vuol dire stare seduti, il corpo seduto. Nei testi che fin dall’antichità descrivono cos’è questa pratica, se prendiamo una pagina troveremo quattro quinti della pagina occupati da come ci si siede ed un quinto dalla descrizione dell’atteggiamento interiore.
E’ importante partire dalla considerazione che in un rapporto di totalità chiunque di noi è una integrità di corpo, spirito, mente e tutto quello che vi pare, ma il corpo è preponderante; questo è un aspetto negletto dall’occidente che l’oriente ha sempre mantenuto nelle forme di pratica spirituale, che partono dal corpo ed al corpo ritornano.
Da noi il corpo è la carne, anche se siamo in una contraddizione che ho sempre trovato stupefacente, con il Cristianesimo che è la religione dell’incarnazione, e nel Vangelo di Giovanni non si parla che di carne, ma per poi arrivare alla disincarnazione dello Spirito, dove la carne come corpo è la parte caduca, peccaminosa.
Zazen è la pratica del corpo seduto e della mente abbandonata. Una certa posizione del corpo facilita la condizione in cui è possibile abbandonare i pensieri rimanendo in una veglia vigile.
Questa vigilanza non è un controllo su qualcosa, ma è un abbandono attraverso la posizione del corpo. Questo è un valore importantissimo al quale si può tornare in qualsiasi momento, perché fare zazen significa sedersi in un certo modo e abbandonare tutti i pensieri, e tutte le volte che mi accorgo che il pensiero ritorna mi cattura e mi porta via, basta semplicemente che io ritorni all’essere seduto.
L’essere seduto è un qualcosa che chiunque può fare, una certa garanzia di universalità, senza bisogno di essere né intelligenti, né sani, né chissà cosa di particolare, ed è quindi la pietra miliare, la forza, la valenza, che permette di dedicare tutto l’impegno e l’energia per fare nulla, senza secondi fini.
Mentre nella spiritualità occidentale c’è l’abbandono comunque sempre a Dio, inteso quindi come fine, qua il tutto è fine a se stesso. In quei momenti lì la vita è totale, non c’è bisogno né di aggiungere né di togliere nulla, né di costruire un ideale né di immaginare di perderlo, né di fare qualche particolare esperienza: è un esserci integrale però attraverso il corpo.

GD – Nei suoi anni passati in monastero lei era stato invitato a studiare la Bibbia, quindi dalla sua esperienza si può dire che anche nello studio, nella lettura, nella scrittura non può esserci un secondo fine, cioè sono lì e quindi scrivo?

JF – Sì, non è una scrittura spontanea.
Nella mia esperienza come straniero, che quando arrivato non sapeva neanche una parola di giapponese, trovarsi di fronte questo muro, mi ha fatto rivalutare enormemente il senso delle parole, il potere delle parole. Prima parlando mi sono accorto ad esempio che ho ripetuto più volte la parola “ assolutamente ”, parola oggi diffusa nel luogo comune come fosse un intercalare. Di queste parole c’è ne sono tante e cambiano come cambiano le mode, ma tornando alla parola assolutamente, essa è una parola che se va bene si può usare due o tre volte nella vita, perché vuol dire qualcosa di totale, di definitivo, ma noi oggi la usiamo per rispondere ad una domanda tipo “E’ buono? Assolutamente sì”….

GD – …e poi non è mai così buono, anzi….

JF – Sì certo, tra l’altro c’è anche questa considerazione.
Comunque l’esperienza delle persone che non riescono a dire quello che vorrebbero perché non hanno alcuna padronanza della lingua, mi ha portato a riflettere sul mio rapporto con le parole, e quando mi sono ritrovato a leggere in italiano e quindi a riutilizzare le parole, da questa impasse espressiva mi sono accorto, e questo lo dice anche Panikkar, che la parola vera non è una sequenzialità, o una parola stereotipata, o una parola che tira l’altra, ma una parola che nasce dal silenzio, dal vuoto se vogliamo.
Quando lei mi chiede dello zazen io devo trovare le parole, certo potrei ripetere il catechismo, ripetere la formuletta e avrei fatto la mia parte; invece cercare di riversarci dentro qualche cosa dell’esperienza le fa rinascere, in un certo senso è lo “ zero ”. Oppure trovare un valore perduto o deviato di una parola, ad esempio la parola “ religione ”, a cui sono molto legato perché c’è il rilegare, il ricollegare, il recuperare qualche cosa dell’integrità, completamente separato da una confessionalità di qualche genere, e continuo ad usarla, benché incontri persone che hanno idiosincrasia rispetto ad essa, perché la legano a cattolica, a confessione, a istituzionalità, a oscurantismo. Questo non è il senso profondo della parola religione ma le incrostazioni che si sono sedimentate sopra. Chiaro che anche le parole ad un certo punto muoiono, occorrerebbe inventarne delle altre.
Quindi anche la scrittura è un tentativo di dire qualche cosa che in quel modo lì posso dire soltanto io, e questo è possibile se c’è questo passaggio a vuoto, nel silenzio che rigenera la parola.
Altra esperienza forte è l’assimilazione più o meno profonda di un’altra lingua, che ci fa capire che ci sono delle cose che in un’altra lingua si dicono meglio, o ci sono delle cose che in una lingua si dicono mentre nell’altra no. A me capita spesso, con persone con le quali ho fatto l’esperienza del Giappone, di parlare e mischiare le parole delle due lingue perché certe cose si dicono meglio, sono più espressive in una lingua rispetto che nell’altra.

GD – Nella mia ricerca sul termine “ religione ” è risultato anche il prendersi cura, il porre attenzione a quello che si fa, e quindi il confrontarsi con un’altra lingua costringe ad essere più attenti alle parole che si usano rispetto al significato della frase, quello che si dirà scaturirà a questo punto da un inevitabile gioco di parole.
Lei dice nel libro Lo Spirito della Parola che paradossalmente proprio oggi che le distanze sembrano accorciate, che è più facile andare in India…

JF – ….era un viaggio di tutt’altro genere. C’è qualcuno che sostiene che l’unico modo di viaggiare sia quello di viaggiare a piedi, che già il treno sia differente.
Un tempo un viaggio in India significava attraversare tutta la Yugoslavia, che adesso non c’è più, tutta la Turchia, l’Iran, l’Afganistan, il Pakistan, paesi oggi impossibili, e farlo con i mezzi che usa la gente di lì, un contatto che prendere un aereo ed arrivare in sei ore a Nuova Delhi non ti consente di avere. Oggi si possono fare cose che una volta erano impossibili ma si è perso il viaggio, perché prioritario è il punto di partenza ed il punto di arrivo, ed infatti gli aeroporti, questi non luoghi, sono uguali dappertutto e le grandi catene alberghiere si riproducono tendenzialmente uguali in posti del mondo completamente differenti, addirittura con la colazione uguale dappertutto.
I grandi viaggiatori come Marco Polo ci mettevano anni per andare da un posto all’altro.
Leggevo di un monaco cinese del VI-VII secolo che è andato in India attraverso un viaggio perigliosissimo di venticinque anni, che ha fatto una descrizione (i cinesi a differenza degli indiani, scrivevano, catalogavano anche burocraticamente) che serve ancora oggi come guida per rilevamenti archeologici. Oggi invece noi viviamo nella continua esperienza che più si corre e meno c’è tempo per fare le cose: questa è crisi, queste sono le cose che dovrebbero portarci a pensare che c’è qualcosa da rivedere.
C’è stato un periodo nel quale lavoravo a Milano e vivevo nella periferia di essa, quindi per recarmi al lavoro mi trovavo a trascorrere anche un’ora e mezza in auto sulla tangenziale. Tante volte mi sono domandato come era possibile che dieci, venti, trentamila anni di civilizzazione potessero aver portato a passare un sesto della giornata chiuso in una scatoletta, tutti fermi, tutti già alla mattina inferociti. Non ho una risposta, ma chiederselo credo sia già cosa stimolante, così come immaginare che dovrebbe essere aberrante ciò che sembra essere inevitabile, cioè passare la vita lavorando e pensando alla pensione come il momento in cui potrò finalmente fare quello che vorrò. E’ stata cancellata la concezione creativa della propria umanità, c’è qualcosa che non funziona.

GD – Questo, riprendendo la domanda precedente, mi ricordava appunto cosa lei diceva nel libro Lo Spirito della Parola a proposito della comunicazione: “ In questo periodo storico contrassegnabile come quello della comunicazione globale, quasi istantanea, assistiamo ad un altro tipo di vuoto, con parole vuote che non dicono nulla ”…

JF – Sì, si assiste ogni giorno. Anche mio figlio, che ha tredici anni, che va a scuola, che è normalmente acculturato, ha una richiesta educativa da parte degli insegnati nella quale il numero di parole utilizzato è modestissimo, e quindi anche la gamma di sfumature, di rapporto con le cose, è ridotto alla funzionalità.

GD – Quindi il comodo e l’agio non sono efficaci?

JF – Il comodo e l’agio non sono efficaci perché è l’idea che si ha di essi che non funziona. Sembra che il comodo e l’agio siano improntati ad evitare la fatica…

GD – …il disagio…

JF – il disagio…mentre il disagio e la fatica andrebbero valorizzati in senso non del sacrificio, della mortificazione. Chi è che non sa quanto è bella la fatica ad esempio di una passeggiata in montagna, o di una partita a tennis, ma perché valorizzare la fatica solo in contesti di svago?
Mi capita di andare ad Urbino, in una città nella quale si possono ammirare ancora edifici con milioni di mattoni fatti a mano, e lì vedi un rapporto della collettività con l’opera d’arte. In una cattedrale, in una chiesa rinascimentale, vedi che non c’è solo l’architetto che fa il disegno e poi cemento, ma c’è proprio la partecipazione della fatica, dello sforzo anche creativo, del lavoro delle mani, dello scalpellino, che è il senso della vita di una persona e che dovrebbe esserne il valore.
C’è qualcosa che mortifica l’umanità se il valore della vita di una persona lo si sposta solamente sulla quantità di denaro che produce o sui beni che si possono comprare con determinato salario, con quello stipendio.

GD – Lo zazen è disagevole?

JF – Molto! E’ molto disagevole da due punti di vista: uno, che poi passa, perché è anche uno sforzo fisico, siccome non siamo abituati a sedere in un certo modo. Poi è disagevole perché implica una rinuncia al pensiero, al piacere del pensare.
E’ abbandono che può apparire sacrificio perché si rinuncia a se, ma anche una sacralizzazione di quell’attività totalmente profana che è semplicemente lo stare seduti, quella che Panikkar chiama la sacralità della realtà senza bisogno di aggiunte o di magie particolari.

GD – E si rimanda rispetto al praticare zazen? Dico ciò perché ho come riferimento questo libro Scrivere Zen, dove la scrittrice Natalie Goldberg, che ha praticato zen e che si considera scrittrice per come intende la scrittura, dice che ci si inventa mille scuse possibili pur di non mettersi a scrivere, anche di qualsiasi cosa, e che anzi, per iniziare, è meglio scrivere di cose casuali che ricordano le associazioni libere Freudiane.

JF – Altroché se capita! Nella vita monastica, dopo che uno si mette in regola, il tutto è più facilitato, perché è implicito svegliandosi alla mattina che lo zazen sarà una delle attività della giornata; il difficile è quando nella vita laica ci si ritrova con se stessi.

Dalla sala – Alla fine del suo intervento ha detto che gli obiettivi che si prefigge il mondo occidentale mortificano l’essere: non mi è chiaro il perché, in quanto per me gli obiettivi valorizzano l’essere che vuole e quindi lavora per ottenere e per gratificarsi.

JF – Non dico che in se l’avere degli obiettivi sia mortificante, ma il problema può sorgere sul rapporto che si ha con gli obiettivi, se sono obiettivi potenzialmente realizzabili, se sono solamente stereotipi di un contesto sociale. Se giungo ad esempio a pensare che devo avere assolutamente tre auto e due case occorre forse giungere anche a pensare se vale la pena passare la vita, magari sacrificandosi per raggiungere tali obiettivi. Allora quali sono gli obiettivi per i quali vale la pena? Questa è già una domanda interessante.
La volontà è solamente una parte dell’essere umano che l’occidente ha esageratamente messo in evidenza, valorizzato: pensiamo ai grandi obiettivi, alle grandi utopie del ventesimo secolo, come il comunismo o il socialismo, con l’idea di realizzare attraverso la volontà e la modificazione delle condizioni ideali determinati tipi di società. Esse avevano alla base modelli di uguaglianza socialmente validi, difficilmente non sottoscrivibili, che però non tengono conto della natura umana, così che, fino ad oggi, la loro realizzazione, si pensi alla Cambogia di Polpot, è stata aberrante.
Noi rispetto all’obiettivo abbiamo un’esagerata fiducia nella volontà, mentre per l’orientale l’obiettivo è l’efficienza comunitaria, che credo abbia origine in una diversa concezione dell’identità individuale. Il giapponese realizzato è quello che fa bene il giapponese, e se gli si chiede chi è lui, dirà prima che è un giapponese, poi come si chiama.
Non si chiederà mai dove va l’insieme Giappone, l’importante è svolgere bene il ruolo nell’insieme.
Noi abbiamo l’eccesso opposto, quello della valorizzazione della volontà e della realizzazione individuale.
La nostra concezione di libertà è soprattutto una libertà “ da ” e non una libertà “ nel ”, cioè trovare la libertà nelle cose che faccio, anche se eventualmente non mi dovessero in partenza piacere perché me le trovo come costrizioni o perché non ho altre possibilità.

Gabriele Lodari – Ho apprezzato molto l’umiltà del suo intervento, e poi è sempre bello parlare dell’oriente, perché si ha l’impressione di poter mandare a spasso la filosofia occidentale, l’armatura metafisica, piuttosto che i sistemi concettuali.
La domanda che vorrei porre e questa: occupandosi di psicanalisi abbiamo dovuto accorgerci dell’importanza della voce. Ho sempre avuto un poco di diffidenza rispetto al buddhismo zen perché me lo sono immaginato come un occidentale, cioè qualcosa che alla fine sembrava andare contro la dimensione pragmatica dell’esistenza, come il corpo raccolto in una certa posizione, il togliersi i pensieri dalla testa, benché in analisi capiti qualcosa di simile quando si tenta di sospendere un discorso di significati, di rappresentazioni del simile, del mondo, della realtà, rispetto alla libera associazione significante. Nel buddhismo ci sono molte diramazioni, ad esempio quella di Nichiren Daishonin dove c’è una grossa valorizzazione rispetto alla voce. Siccome anche il corpo non è racchiuso nei limiti della sua pelle, non può essere totalmente separato da quella che viene chiamata realtà esterna, così come si evince anche dalle teorizzazioni del buddhismo zen, perché la voce ed anche lo sguardo devono essere necessariamente esclusi? Le ramificazioni del buddhismo sembrerebbero essere ciascuna il privilegio della contemplazione rispetto alla meditazione, rispetto alla recita e quindi all’uso della voce.

JF – La nascita delle ramificazioni è nel XIII secolo, giunge con una grossa crisi che ha attraversato ogni campo, sociale, economico, antropologico, esistenziale, e dalla quale è prevalsa l’intenzione di rendere popolari pratiche fino ad allora appartenenti ad un buddhismo culturale appannaggio di una casta sacerdotale corrotta, legata ad una tradizione magica esoterica. C’è stata un’operazione di divisione e di sintesi dalla quale ogni pratica non necessitava più di intermediari ed era accessibile a tutti, anche se ancora oggi nei monasteri giapponesi non è totalmente esclusiva una pratica rispetto alle altre.
Il tutto si lega ad una tradizione spirituale mistica apofatica che non è necessariamente una negazione dell’attività pratica, ma è il darsi, l’offrirsi tramite l’immobilità ed il silenzio di Dogen, o attraverso la recita di un verso, quindi con l’emissione della voce come nel buddhismo di Nichiren (Nam Mioho Renghe Kyo) o della Pura Terra.

Gianluigi Castelli – Lei ha detto che ci sono delle ideologie molto valide che però non tengono conto della natura umana, potrebbe precisare cosa intende per natura umana?
La nostra accezione di libertà è la libertà “ da ”. Io penso che si possa parlare più di libertà “ di ”, e quindi le chiedo se potrebbe specificare queste tre libertà: “ da, di, nel ”?

JF – La libertà “ da ” è quella di poter dire le cose che dico oggi, rispetto a Paesi come l’Uganda dove in questo sarei fortemente condizionato, quindi una libertà rispetto a condizionamenti.
Una libertà che se estremizzata è quella della libertà quindi dalla morte, con tutte le sue possibili conseguenze.
Un’altra libertà è quella del malato che fa tutto il possibile, nei limiti magari anche del denaro, per guarire: ma se poi non guarisce? La libertà “ nel ” è quella che mi consente d’accettare la malattia, la sviluppo nell’accettazione di essa.
L’eccesso orientale è una forma se vogliamo di quiescenza e di accettazione passiva. Ma il buddhismo non ha la formula, la soluzione, è una continua ricerca.
Siamo tutti in un processo di invecchiamento, se la mia ricerca di libertà è solamente quella di liberarmi rispetto all’invecchiamento e non di trovare nell’invecchiare la mia modalità di libertà, ecco l’idolatria del giovanilismo.

Gianluigi Castelli – Questo discorso si può estendere a tutto? Se parliamo di quiescenza, di accettazione passiva, di immobilismo rispetto alla morte, perché capita che accada e quindi si deve morire mentre ad altre cose si può rimediare, come rapportarsi invece con il dolore, con quella che si usa dire la liberazione dal dolore?

JF – Questo è un discorso complesso

GD – …questa mattina, a Torino Spiritualità, Forzani ha parlato un’ora su questo argomento.

JF – Il dolore di cui intendo non è il dolore di aver male qui o là, o il dolore che la magia dovrebbe farti passare, ma il dolore di cui il buddhismo parla è la condizione esistenziale del se per se, è un malessere, un disagio intrinseco, per cui anche il momento di gioia lo so transitorio.
Liberté, egualitè, fraternité è una bellissima utopia, perché noi non siamo per niente uguali, e bisognerebbe anzi valorizzare la diversità di ciascuno come unico modo per avere un’autentica prossimità. Un’utopia sociale e collettiva che non tenga conto di questo è destinata inevitabilmente a produrre un’idea, un’ideale di uomo a cui tutti devono conformarsi.
Tutti gli animali sono diversi per cui bisogna trovare il modo di vivere armoniosamente valorizzando ognuno la propria diversità: questa è la libertà. Infatti il dettame evangelico, e precedentemente ebraico, dice “ Ama il prossimo tuo come te stesso ”, che non vuol dire che tutti devono diventare uguali, anzi questo “ come ” indica che saranno sempre differenti.
La conoscenza e l’amore verso se stessi è il veicolo per cui è possibile amare il prossimo, che sarà sempre comunque un altro.

Dalla sala – Quell’annullamento del pensiero di cui lei ha parlato lo trovo inconcepibile.

JF – Non ho mai parlato di annullamento del pensiero, il pensiero non si annulla, non finisce mai, ma di abbandono dei pensieri perché mi accorgo che non sono io che penso ma è il pensiero che mi pensa.

Daniela Berera – Quindi quando trova un pensiero che la sovrasta lo stoppa?

JF – Non lo stoppo, ma lo lascio andare, non lo sostengo più. Il pensiero ossessivo tornerà ma poi ti accorgi che anch’esso ti da della tregua, c’è uno spazio, e quello spazio è uno spazio di libertà da quel pensiero, di quel pensiero.

Dalla sala – Quindi sospendere quel pensiero con la pratica dello zazen?

JF – Sì, anche se ci sono molte pratiche che possono esserlo, anche lo sciare può essere una pratica per sospendere il pensiero, nel caso dello zazen la pratica è stare seduti in un certo modo, e se mi accorgo nell’arco della mezz’ora che un pensiero sta tornando a monopolizzare torno semplicemente a stare seduto.
Lo zazen lo si fa ad occhi aperti, quindi facilita il non intontirsi.
Il pensiero tornerà ma già questo gli toglierà il monopolio, troverà la sua parte. Quando non faccio nulla perché il pensiero deve avere questa egemonia sul mio esserci? Anche perché spesso io soffro per i miei pensieri. Soffro di quello che penso. Soffro perché magari penso di sterminare il genere umano, quando questo pensiero non fa male a nessuno, e quindi perché devo farmi tormentare da un’attività assolutamente futile?
Perché? Ma questo è molto semplice, filosoficamente parlando: essere, pensare, sono l’identificazione dell’essere nel pensiero, fino al Cogito ergo sum, ma ancora prima Parmenide diceva che l’essere e il pensiero sono la stessa cosa.

Valeria Ferrero – Mentre lei parlava mi sono venute in mente molte cose, su alcune di esse mi sono fermata perché mi sono piaciute e mi hanno colpita: una è questa assenza di soluzione tra un modo di vivere, diciamo occidentale ed orientale, che lei continua a portare avanti, che fa parte della sua inquietudine. Un’inquietudine buona che la sospinge, quindi molto apprezzabile.
Poi lei ha detto, rispondendo ad una domanda, che c’è questa cosa qui, che sembra ostica, la vorrei superare, la vorrei scartare, ma in qualche maniera la devo fare e quindi per farla non posso che cercare di farla bene; quindi un ritorno alla qualità, che mi fa pensare ad un recupero delle risorse che già si hanno, che in quest’economia, di cui lei accennava, non vengono tenute in considerazione.

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