I problemi mentali del tennis

 

Torino, 27 Novembre 2008 – Intervento al Seminario di Gabriele Lodari “Per la sessualità non bastano metafora e metonimia: occorre la parabola, occorre il sogno”.

 

Molti sono gli sport che ho praticato, alcuni continuativamente a livello agonistico e professionistico. Tre anni di calcio quand’ero pulcino o poco più, dieci di atletica leggera nell’adolescenza, e dieci di bob fino ai trentaquattro anni di età. Dopo la decisione del ritiro dal bob, ecco un labirinto che non era quello di ghiaccio che avevo lasciato, ecco un’urgenza che ha spinto a fare ed intraprendere parecchie cose, tra le quali l’incontro con il tennis.

Incontro che ha anche fornito la chance di cimentarsi come preparatore atletico.

I primi tempi non furono facili, trovarsi nella parte dell’allenatore costringeva ad andare oltre lo sguardo degli allievi, non più con un urlo come in quei cinque sei secondi di spinta sul ghiaccio, ma mettendosi in gioco con la parola. Non era più il cronometro a parlare, per dimostrare all’allenatore (che magari preferiva un altro perché semplicemente parlava di più e quindi riusciva a relazionarsi con lui) che aveva sbagliato nelle scelte.

Tutte le critiche e le ricerche dell’allenatore giusto, ideale, ritornavano come a dirmi: “Adesso tocca a te, vediamo com’è questo allenatore ideale!”.

I ragazzini erano difficili da sopportare, per fortuna c’erano “le signore”, le quarantenni della Coppa Italia con le quali le lezioni erano divertenti.

Sono passate tre stagioni e le signore quest’anno non ci sono più, in compenso è aumentato il numero dei ragazzini. Però ora è piacevole avere a che fare con loro, forse ci so più fare, ho la sensazione di poter imparare molto da loro, oltre che gratificarmi nel vedere i loro miglioramenti atletici. Un paio di loro, approdati alla under 16, intendono fare qualche anno di agonistica. Lì la sensazione che, per non far mancare l’apporto di accrescimento, non sia possibile essere solamente preparatore atletico, quello da manuale. Lì inizia a sorgere l’idea di fondare una scuola, dalla quale potrà anche darsi che uscirà qualche campione di tennis, con il quale magari ritornare a girare il mondo anche in posti dove la temperatura media non sia meno dieci gradi, ma questo un volta detto va dimenticato, perché è essenziale che quell’ambito sia scuola, sia formativo per i ragazzi e per chi occupa la parte dell’insegnante, del maestro, dell’istruttore. Quell’ambito deve instaurare la formazione, nel senso che la formazione sarà sempre in atto per chi si allontanerà dalla scuola, per chi avrà l’opportunità di fare quei dieci quindici anni di attività agonistica, per chi si troverà ad occupare a sua volta la parte del maestro, per chi aprirà un’altra scuola, per chi seguirà la strada aperta dagli studi che ha frequentato, per chi si farà una famiglia e quant’altro.

Dovranno inconsapevolmente passare i valori che scaturiscono dall’esperienza che è sempre da scriversi, perché non acquisibile una volta per tutte, non imparabile su un libro, non comprabile né vendibile.

L’unico sapere possibile sarà la consapevolezza che la soddisfazione è nel fare secondo l’occorrenza, qualsiasi cosa occorra fare, sostenendo l’apertura per cui le cose non si possono volere, ma dove il miracolo accade: la leggerezza di un fare leggero, poetico, precario, entusiasmante nelle vicissitudini della vita.

Tutto ciò il tennis, più di altri sport, lo presenta da subito a chi intraprende una strada agonistica.

Non basta il maestro e gli apprendimenti tecnici, non basta la preparazione atletica, perché c’è quella componente chiamata “mentale”, l’affinamento della quale così facile non è.

Tal componente può dirsi nelle ore che può durare un incontro, nel trovare lo sguardo del pubblico infastidente, in un particolare pubblico non sopportabile, nell’incantarsi sui colpi effettuati, nel non riuscire a trovare la concentrazione, nell’arrabbiarsi furiosamente, nell’essere influenzati dagli atteggiamenti dell’avversario, nella paura di vincere o di perdere, nell’accorgersi che l’appellarsi alla frase “non riesco perché non lo voglio, perché non ci credo abbastanza” non è abbastanza, nelle tante ore di allenamento che possono facilmente far cadere nella noia della ripetizione, nella difficoltà di trovarsi solo durante la partita.

Questi ed altri termini potrebbero essere oggetto di articolazioni, di elaborazioni molto interessanti all’interno della stessa scuola, a ciascuno il compito di accoglierle nel proprio diario.

Ma quello che conta non è vincere, perché non si può programmare di vincere Wimbledon, ma Wimbledon potrà accadere che si vinca, senza sapere per chi lo ha vinto il come, quasi si è vinto come evento distaccato dall’individuo, oltre di se.

Quello che conta non è vincere, ma che il viaggio prosegua, di partita in partita. Anche se si perde è importante che la partita sia dispositivo per altri accadimenti, per altri interessi, sia propulsiva per la scrittura dell’esperienza.

Come giungere in questa condizione di sogno dove il tempo cronologico non tiene più, non ha nessuna rilevanza, ma il tempo è il ritmo degli eventi che accadono?

Può funzionare essere necessariamente cattivi o aggressivi con l’avversario?

Come giungere a sentire l’avversario non avverso, ma colui che mi fornirà le palle per fare dei bei punti, per acquisire uno stile, colui che mi consentirà di sentirmi solo?

Come sentire la solitudine come condizione indispensabile per la riuscita?

Come vivere un match come spunto per proseguire il diario?

Ecco dunque la via delle elaborazioni, dei racconti, dei diari, perché la risposta a queste domande non c’è e non è nelle tasche, nei manuali di nessuno. E’ importante giungere a formularle, a elaborarle, a rilanciarle nei modi particolari a ciascuno, a contestualizzarle come interrogativi che scorrono in un itinerario narrativo.

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