Il rito – Bergman

 

Emerge ne Il rito di Ingmar Bergman la questione della censura, dove il censore, a mal partito, soccombe.
Ma censurare è essenzialmente censire, categorizzare, classificare.
L’etimo di categoria è kata agoreio, cioè contro il dire e l’agire. Puntare ad un’opera classificatoria è per mettere a tacere, ma la storia non può finire e per proseguire occorre che le cose si cifrino, non che si classifichino.
Nel foro indicava l’accusa, alla quale si contrapponeva l’apologia difensiva.

Pare che il film Il rito sia anche liberamente tratto dal romanzo di Franz Kafka, Il processo.
Come tutti i romanzi di Kafka anche Il processo è un sogno trascritto senza giungere all’interpretazione. Rispetto ai romanzi brevi dove il sogno è una breve favola, tanto fantastica, tanto sorprendente nel spalancare l’apertura, ne Il processo c’è un proseguire che può essere frustrante, perché ogni qual volta sembra esserci la possibilità di rintracciare un’interpretazione teorica ecco che la scena cambia, sembra di vivere quei sogni in cui compare del soggettuale, e quindi al risveglio la sensazione è quella dell’affaticamento. Come disse Primo Levi quando tradusse il romanzo di Kafka in italiano “Si viaggia per meandri bui, per vie tortuose che non conducono mai dove ti aspetteresti”.

Il processo sembrerebbe voler dire che l’interpretazione non solo non è certa, ma non è neanche vera, perché la verità è solamente quando le cose si fanno e si scrivono, dove emerge le fede, il sentire che il racconto non può che proseguire, che l’apertura consentirà accadimenti provvidenziali. Nessuna verità nell’emergere di un soggetto che avrebbe la giusta interpretazione.

Ne Il processo l’accusatore non compare affatto, all’incirca come ne Il rito, dove c’è quest’accusa per oscenità che però è messa da parte, perché l’attenzione ricade su questa strana triade e sul ribaltamento di ruoli quando si incontrano con il giudice. E ne Il processo invece ci sono tratti dove il signor K nelle sue elucubrazioni si trova ad accusare tutta l’impalcatura giudiziaria.

Una frase essenziale si trova all’inizio de Il processo, detta dalle guardie del signor K che avevano fatto irruzione nel suo appartamento, arrestandolo ed impedendogli di uscire: “I nostri superiori, non è che cerchino le colpe della popolazione, ma vengono attratti dalle colpe”.
Quindi il discorso giudiziario della colpa è qualcosa a cui ci si rivolge sia nella parte dell’inquisitore che illaziona in maniera costante, sia nella parte di chi si difende accusando, attaccando in maniera tendenzialmente isterica.
E se questo discorso permane ecco l’insensato senso di colpa o l’altruistico compatimento verso l’inquisitore, giungendo magari anche a farsi vittima nei suoi confronti.
Neanche la morte può placare tale discorso, perché, come dice Kafka al termine de Il processo descrivendo la morte del signor K “E fu come se la vergogna gli dovesse sopravvivere”. Come a dire che quella fine non fosse la cifra, bensì il ribadirsi del discorso della gogna e della vergogna.
Se non si riesce ad andare oltre le sintomatologie colpevolizzanti, ecco l’operazione giudiziaria come operazione di restaurazione, per mettere ordine e far tornare le cose come prima.

Questo accade molto spesso a chi inizia un’analisi in preda al sintomo, in un’enfasi di senso di colpa, d’angoscia, di vergogna, e vorrebbe quindi far tornare le cose come prima.
Paradossalmente c’è anche chi si lamenta perché la sua vita sembra contraddistinguersi di circostanze che si ripetono sempre uguali.

Il dispositivo dell’analisi è come se ricostruisse in ciascuna conversazione la questione della ripetizione e del rito, ma proprio per andare ciascuna volta oltre il dispositivo.
La conversazione funziona non scambiandosi i ruoli analista – analizzante, ma occorre che si instauri il racconto, che non è cronaca dei fatti e dei sintomi.
Occorre che il rapporto a due diventi relazione a tre, cioè il cantore dei programmi e dei progetti che vengono scrivendosi sia sempre Altrove.
I due implicati nella conversazione è come divenissero ciascuno in modo differente spettatori, aspettatori che non passano all’atto, cioè non soggetti in attesa, né soggetti allo sguardo, che viaggiano e lavorano ascoltando quest’Altro cantore.
Si può ascoltare, si può integrare solo viaggiando.
E’ come se si raccontassero le vicende di un personaggio fantastico, non le peripezie dell’analizzante soggetto all’analisi dell’analista.
E’ come l’arringa di un bravo avvocato, che ha dipinto e tratteggiato così favolosamente le vicende di un altro personaggio rispetto all’imputato, per cui tutti concordano sul fatto che non è detto che l’imputato non abbia commesso il crimine, ma non ha più senso interessarsi e proseguire con il discorso giudiziario della colpevolezza.
L’imputato è assolto, Cristo, fattosi uomo per salvarlo dal senso di colpa, si è dissolto in cielo.

E il bravo avvocato per dipingere il personaggio non si basa sul talento, sulla dote personale, ma procede facendo ciò che occorre fare, lavorando secondo l’occorrenza.
La sua è un’opera d’ingegneria, perché deve cogliere genialità, deve trovare inventiva per costruire l’arringa difensiva.

Questo è ciò che Vincent Van Gogh ha incessantemente ribadito nelle moltitudine di lettere scritte in gran parta al fratello Teo, esemplificabile nella seguente frase “Anche se abbiamo qualche attitudine naturale, è solo più tardi che il senso artistico si sviluppa e matura, grazie al lavoro!
Quando oggi si registra l’anestesia rispetto al senso artistico è perché tutto è standard, tutto è naturale, tutto è contemplato nelle istruzioni, nelle informazioni, tutto deve essere mediaticamente facile, fruibile, a portata di mano, di telecomando, tutti occupano o devono occupare un ruolo, un posto di lavoro, compreso quello dell’artista.
Pochi lavorano, totalmente presi dall’educare, dal correggere, dal formare, quando basterebbe osservare brevemente un bambino, cosa fa se non tutto il giorno disegnare, fare versi, costruire oggetti storie e personaggi?

Orat et Laborat, non è possibile lavorare senza raccontare, non è possibile raccontare senza che l’Altra mano, la mano artistica, la mano intellettuale, sia al lavoro.

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