La coincidenza

 

Intendendo la coincidenza come qualcosa che si sovrappone, che corrisponde, come non pensare al principio di identità e quindi di ripetibilità. Sarebbe cioè possibile fissare una cosa e quindi ripeterla tanto uguale da poterla sovrapporre.

Ma ciò non è possibile, perché due cose solo apparentemente possono risultare uguali, mai perfettamente.

L’etimo di perfezione è per (fino in fondo) facere (fare), come a dire che una cosa sarebbe perfetta se fatta fino in fondo.

Dalla fabbricazione di oggetti si evince che le cose non sono mai perfette come erano state progettate, seguendo come riferimento un disegno e delle misure, e la loro imperfezione si evidenzia inoltrandosi nell’infinitamente piccolo, quando le imprecisioni di fabbricazione divengono infinitamente grandi. Eppure nelle officine ci sono i pezzi di ricambio, che, anche se non perfettamente uguali, assolvono il compito di sostituire quelli vecchi o guasti, lasciando pur comunque immaginare che la meccanica di precisione non sarà mai tale da evitare in futuro che gli aerei talvolta cadano.

Alcuni artisti, di fronte all’impossibilità della perfezione, hanno reso monche le proprie opere perché non erano per loro perfette, quindi quel palese difetto per dire che l’opera è difettosa, che l’imperfezione continua ad esistere nella sua impossibilità d’espressione, che l’autore non viveva la stessa meraviglia dell’ammiratore.

Qualcosa di simile si registra nelle coppie di ballerini, in special modo di tango argentino, dove lui, dopo performance straordinarie, incontra un’ira furibonda sfociante nel pestaggio della ballerina.

Quest’accezione di coincidenza trova la miglior sociale esemplificazione nel “sapere già” rispetto a come sono le cose, le persone, se stessi, a come andranno a finire e a viverle come siano sempre uguali. Un’identità che si esplicita non solo sull’oggetto cosa, ma anche sul soggetto, che nell’insieme dei soggetti s’intende con essi sulle emozioni, sul carattere, sulle situazioni, arrivando ad accettarsi “Io sono fatto così, lui è fatto così…”, con le situazioni che non possono che ripetersi, ancor più uguali dei pezzi di ricambio.

Specialmente per le donne la questione salta fuori con i figli “Lui è come me, è tutto sua madre e dove non lo è allora è tutto suo padre, o suo nonno, o suo fratello, o suo cugino…”.

E la madre di fronte all’imperfezione del figlio, evitando l’elaborazione e la teorizzazione della cosiddetta depressione post-partum, il figlioletto caro, il tesoro di mamma, arriva anche a sopprimerlo, a ricacciarlo sotto terra.

Arrivare logicamente a quest’intendimento è più facile che vivere nella novità. E’ agevole vivere nella noia, nel girare a vuoto ed in tondo, nell’asfissia sociale del luogo comune, dell’enunciato, nella logica della domanda e della risposta, della comunicazione diretta.

Vivere con gioia, soddisfazione e piacere della riuscita è arduo, comporta difficoltà rispetto all’accontentarsi beotamente, godendo, chiacchierando, spettegolando.

Rispetto alla coincidenza come corrispondenza occorre introdurre la questione dello specchio, partendo dallo strumento specchio adoperato per proporre la copia conforme dell’oggetto. “E proprio quello lì”, non una copia materiale dell’oggetto ma una copia dell’immagine dell’oggetto, così da far divenire l’immagine punto di riferimento sociale, qualcosa di catturabile. Rispetto alla fotografia l’immagine risulta perfetta perché non in balia del numero di pixel che definiscono la nitidezza.

Intorno allo specchio si rileva comunque qualcosa di abissale, perché rispetto ad esso ci sono discorsi per i quali lo specchio non presenta più l’immagine a chi si sta guardando, o altri che rispetto ad un continuo smagrimento continuano a vedersi nello specchio grassi.

Lo specchio introduce quindi la questione della sembianza.

Può esserci una cosa non presa nella sembianza?

Si può ancora parlare di un oggetto e dell’immagine di esso se “la cosa” procede dalla sembianza, se è la sembianza ad essere originaria e non la cosa e tanto meno l’oggetto?

L’etimo di specchio è speculu, da specere = guardare. Potrebbe quindi esistere la funzione di specchio senza quello di sguardo?

Ci si guarda allo specchio pensando di guardare la copia della nostra immagine, ma quella figura ci guarda ed è ipnotico se la si fissa, se ci fissa.

La figura di una sala piena di sedie non provoca nessun timore, viceversa con la sala piena di persone si parla di sofferenza rispetto allo sguardo, lo sguardo diventa destabilizzante.

E quindi la prospettiva, il prospectum, il vedere come stanno, starebbero e staranno le cose va di pari passo con la sofferenza rispetto allo sguardo. Si conoscono così bene le cose che è possibile prevedere come andrà l’intervento in pubblico, cosa penserà il pubblico, lo si leggerà dai loro sguardi.

Differente è la profezia come attributo del fare e non del soggetto che fa, che vede, che prevede.

La sembianza, ovvero nessuna possibilità di entificazione, di ontologizzazione.

La sembianza zoppica quando si può dire che c’è coincidenza tra sguardo e specchio, che c’è dicotomia, sovrapposizione. Se prevale timorantemente lo sguardo la funzione di specchio è deficitaria e quindi le cose “stanno così”.

Se prevale lo specchio allora la presunzione che sia possibile occupare, stare sulla scena impassibili rispetto allo sguardo, paradossalmente in un overdose di sguardo, stare appunto nella Theama.

La voce dunque come punto di astrazione, insituabile, singolare, proveniente dagli astri, da un altro mondo, perché lo specchio possa essere punto di distrazione a rendere impossibile la rappresentazione d’oggetto, e lo sguardo punto di sottrazione rispetto ad un soggetto che pensa di vedere come starebbero le cose.

Ancora rispetto alla coincidenza è interessante notare che possa provocare una totale indifferenza o uno scatenarsi ansiogeno.
Quelle che vengono chiamate coincidenze sono accadimenti imprevedibili, incredibili, fuori logica, fuori previsione.

La frase più comune rispetto ad esse è “Il mondo è piccolo”, perché ad esempio in tre giorni successivi si incontra la stessa persona in tre punti differenti di una città di un milione di abitanti; oppure si pensa o si parla di una persona ed eccola che compare, ecco che telefona, “Parli del diavolo e spuntano le corna”.

Sono cose incredibili, appunto quasi diaboliche.

La coincidenza può essere contaminata da questo “co”, inteso oggi come qualcosa di comunitario, di sociale, ma l’essenziale è l’incidere.

L’incisione, la scrittura dell’esperienza non può essere tradotta o copiata, è originaria, attiene alla caduta, cioè qualcosa precipita e si scrive.

Per questa scrittura occorre la mano intellettuale, la mano instrumentale.

La traccia è dell’avvenire, non è la traccia come segnale di qualcosa che è stato, da interpretare.

E’ come se ciò che resta di questo lavoro di scrittura fosse in anticipo rispetto a ciò che accadrà, in qualche modo direzionandolo.

Oltre Kronos le coincidenze, come i sogni ed i collegamenti con la presunta realtà (es. il trillo della sveglia mentre nel sogno suonano la campane).

Il gerundio, facendo, vivendo, respirando, per assaporare la strada giusta, per incontrare l’impossibilità del fallimento, per intendere il piacere come piacere del compimento, delle cose che si scrivono.

Per il sentire, per accogliere l’Ascolto occorre il dispositivo.

In certe civiltà dove la scultura era taglio, abbozzo originario, e non la rappresentazione di qualche cosa nel vano tentativo di toglierla dall’apertura, dall’eternità dell’Atto di Parola, non vi era la necessità dell’analisi come preambolo, come urgenza di taglio, di tono intellettuale.

Non è possibile dire le cose, le cose si dicono scrivendo, procedono dal lavoro della scrittura, oltre ogni possibilità soggettuale, volenterosa nell’ottica del sacrificio.

Senza la scrittura nessuna possibilità di ascolto, nessuna possibilità di lettura.

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