La vita estrema del bambino

 

Torino, Educatorio della providenza, 25/04/2014 – In occasione della presentazione del libro Un bambino viene agitato

 

Di fronte a quella che sembrerebbe un’assurdità incredibile, dare psicofarmaci a bambini, di primo acchito verrebbe da non dire proprio nulla, eppure, malgrado il lavoro pluriennale d’informazione e divulgazione di organizzazioni come Giulemanidaibambini, tutto continua pressapoco come prima, con il sistema che prevede che il politico di turno ovviamente non abbia nessuna responsabilità e non possa fare niente.

Così come il sistema prevede che ci siano gli specialisti, i tecnici che sarebbero in grado di trovare soluzioni alternative allo psicofarmaco.
Soffermiamoci, per non cadere nel ridicolo, solamente sui casi ricordati da Luca Poma, cioè bambini che infrangono la mano del compagno di banco con una forbice, o che giungono a gettarsi, o vengono fermati al pelo prima di gettarsi dalla balconata.

Non occorre lo specialista in grado di trovare la causa, perché quel bambino invoca la causa non ontologica. Quel bambino non chiede ascolto, non riesce invece a trovare interlocutori che introducano l’ascolto come funzione terza. Non vuole ascoltare la verità storica, la verità della buona condotta, chiede la causa, il catalizzatore per poter incontrare la verità dell’ascolto.
Non è un caso estremo che giustifica l’uso estremo dello psicofarmaco, lui reclama e promuove la vita estrema, per cui la causa è in direzione della scrittura, è in direzione del futuro come inedito passato, di una cifra che è eternamente apertura.

La vita estrema, tra rigore e follia, tra scienza ed arte.
Non è possibile l’alternativa alla vita estrema.

Se non s’introduce l’ascolto nell’indagine, nell’analisi intorno alla pazzia, ecco che essa viene sistematizzata, ecco l’impazzare degli specialismi, delle medicine alternative, delle terapie alternative, degli psicopompismi di ogni tipo. Ed ecco che ci ritroviamo ancor oggi a dover assistere alla pazzia di un sistema in cui nessuno è responsabile nel dare psicofarmaci a bambini, in cui si rischia di trovare in qualche modo comunque l’accordo sul caso in cui sarebbe lecito darli, rischiando quindi di girare in tondo, di impastoiarsi in presentazioni di dati, di informazioni, di casi clinici.

Nessuno che si trovi ad incontrare queste questioni può esimersi, può sottrarsi, può demandare rispetto al proseguimento dell’indagine e dell’elaborazione, rispetto al fornire contributi affinché la domanda di cifra, la domanda di interlocuzione non si chiuda, affinché la battaglia intellettuale, la battaglia nella quale nessun ostacolo è mai avverso, possa proseguire.

Allora ecco chi rispetto a questo compito, a suo modo, non si è certo sottratto: è il già citato Borges, che invoca Joyce, un po’ come quel bambino che brandisce la forbice sulla mano del compagno.
La traduzione è dello scrivente, che al tempo ritenne di farne un’omaggio a Borges, tanto era indegna quella che aveva fin lì trovato.

 

Invocazione a Joyce

 

Dispersi in disperse capitali,
solitari e molti,
giocavamo a essere il primo Adamo
che diede nome alle cose.
Per i vasti declivi della notte
che confinano con l’aurora,
cercammo (lo ricordo ancora) le parole
della luna, della morte, della mattina
e degli altri abiti dell’uomo.
Fummo l’imagismo, il cubismo,
le conventicole e sette
che le credule università venerano.
Inventammo l’assenza di punteggiatura,
l’omissione delle maiuscole,
le strofe in forma di colomba
dei bibliotecari di Alessandria.
Cenere, il lavoro delle nostre mani
e un fuoco ardente nostra fede.
Tu, mentre tanto, forgiavi
nelle città dell’esilio,
quell’esilio che fu
il tuo aborrito ed eletto strumento,
l’arma della tua arte,
erigevi i tuoi ardui labirinti,
infinitesimali e infiniti,
mirabilmente meschini,
più popolosi della storia.
Saremmo morti senza avere scorto
la biforme fiera o la rosa
che sono il centro del tuo dedalo,
ma la memoria tiene i suoi talismani,
i suoi echi di Virgilio,
e così nelle strade della notte perdurano
i tuoi inferni splendidi,
tante cadenze e metafore tue,
gli ori della tua ombra.
Che importa nostra codardia se c’è sulla terra
un solo uomo valente,
che importa la tristezza se ci fu nel tempo
qualcuno che si disse felice,
che importa mia perduta generazione,
questo vago specchio,
se i tuoi libri lo giustificano.
Io sono gli altri. Io sono tutti quelli
che hanno riscattato il tuo ostinato rigore.
Sono quelli che non conosci e quelli che salvi.

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