Il sosia

 

Ritratto, dipinto di quello che si potrebbe intendere come discorso ossessivo, altrimenti indagato già in Freud come nevrosi ossessiva e la sua prossimità con la psicosi maniaco depressiva.
La bellezza de Il Sosia, per chi riesce a giungere alla lettura de Il Sosia, è che questo dipinto continua a scriversi, è come se fosse sempre in atto la pittura di questo dipinto, è come se la modalità di questa scrittura sia il dipinto.
Ciò è sublime, è importante sia per chi ritrova alcune dinamiche che gli sembrano proprie, sia per chi intende qualcosa magari del convivente, dell’amico, del collaboratore.

Tra i racconti di Dostoevskij Il Sosia forse è quello più fantastico, dipinge mirabilmente come il discorso ossessivo sia immerso nel fantasioso che però non è racconto ma elucubrazione (Lucubrare – Lucubrum – Lucu-ferum = fiaccola di cera)
Una questione illuministica dunque, di un soggetto illuminato, di un soggetto stratega, che deve pianificare per poter agire come condottiero illuminato.
Un soggetto self-made che si occupa di pensare, e poi di agire quando tutto è stato pensato, rappresentato, soppesato. Un soggetto ateo, un soggetto razionale, privo innanzitutto di fede.
Non vi può essere Dio senza la fede, così come senza la fede non si può accogliere “l’idea che nessuno ha” come operatore alla riuscita.
Il soggetto è padrone dell’idea, si è fatto un’idea su tutte le cose.
La fede è procedere secondo il filo, secondo il legame fantasmatico rispetto in questo caso allo sguardo.
Il soggetto ha idea dello sguardo, e quindi è soggetto alla sguardo, l’Io procede dall’idea dello sguardo.
Impossibile l’ateismo, impossibile spogliarsi di se stessi perché l’Io procede dall’idea dello sguardo.
Una vita senza fede è una vita infernale.
Lo sguardo opera come conduttore in quanto punto di sottrazione, le sue virtù si manifestano in atto, ma lo sguardo non è mai in azione, altrimenti non si potrebbe che seguire l’idea del conduttore ideale da imitare. Nel discorso ossessivo lo sguardo è vissuto come contraccolpo, diventa punto d’illuminazione ma anche e soprattutto punto di fissazione, di ancoraggio, punto intimidatorio, punto timorante.

Il soggetto si caratterizza per essere soggetto allo sguardo, così come il nostro eroe (come lo chiama Dostoevskij) Goljadkin, che nel romanzo presta continuamente attenzione allo sguardo altrui.
Il nostro eroe, dopo la pianificazione, la geometrizzazione dello spazio, agisce e parla per dire le cose come stanno, [a me non la si fa!], e quindi è sempre fuori luogo, non è mai puntualmente, mai ingenuamente a sproposito, ha sempre troppi propositi in testa, ha sempre troppe cose da dire, così da chiedere sempre almeno cinque minuti per poter parlare, per poter parlare con il padre di turno, per poter essere riconosciuto.
Goljadkin è introverso perché si perde nell’introduzione, nella conduzione che gira in tondo.
Si perde nel tempo per comprendere di Lacaniana memoria, e così incontra lo psicopompo di turno che invece di porsi come interlocutore per provocare verso il racconto e la teorizzazione fantastica, lo comprende e lo consiglia a buttarsi nel sociale, alla frequentazione di feste. E poi continua a comprenderlo tanto da giungere nel finale del romanzo all’apoteosi della comprensione, tra il compatimento e il disprezzo, accompagnandolo sottobraccio ad una carrozza che lo condurrà a ricevere [l’alloggio governativo con legno, luce e servizio!], così da non dover più affrontare le difficoltà lavorative, le difficoltà relazionali con le altre persone.

Perché paradossalmente il discorso geometrico, il discorso delle similitudini è in difficoltà a relazionarsi con il simile, in quanto altro essere che palesa l’umanitudine.
La cavallitudine, che Lacan riprende dai greci per dire dell’immaginario, ovvero ciò che non viene messo in dubbio, ad esempio che da due cavalli nasca un puledro e non un ragno.
Chi ha paura del simile ha paura di essere padre in quanto il figlio non gli appartiene, non gli somiglia, non lo riconosce come padre, è inquietato dall’altra cosa che si profila oltre la stessa cosa, si sente sbalestrato procedendo per abduzione, uscendo dal circolo, dalla specie, dalla razza genealogica, sintomatica ma comunque rassicurante.
Ha paura della propria ombra. L’immagine che ha di sé e dell’altro gli fa ombra e quindi la paura.
Invece l’immagine è imitativa in se (Imaginem – Imitaginem – Mimaginem – Mimos). L’esempio ce lo fornisce Dostoevskij stesso, che è indotto a dipingere mirabilmente il discorso ossessivo in quanto riesce ad accedere all’imitativo del racconto.

Goljadkin, il discorso geometrico, il discorso della stessa cosa, nel suo apice di difficoltà introduce il sosia, la stessa cosa. E lo introduce quando, pur timoroso di non essere riconosciuto [ma con chi pensano di aver a che fare?!] va in tilt perché non viene accolto, perché viene respinto mentre si accinge ad entrare alla festa.
Il discorso ossessivo ha paura di non essere riconosciuto e va in tilt quando viene abbandonato, in genere da quello isterico, mentre quello isterico, che passa la vita tra la gente, ha paura di essere abbandonato, e va in tilt quando in genere il discorso ossessivo mette in dubbio la questione del riconoscimento, sul versante della verità sottolineando l’altra faccia dell’equivoco, o sul versante della menzogna negando l’evidenza “sei tu che menti o ricordi male – non l’ho mai detto, te lo stai inventando”.

 

[ ] frasi estratte dal romanzo

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *