Attraversare il labirinto ed esplorare i Tristi Tropici

 

La condizione di apertura occorrente per non essere assalito da variegate sintomatologie di fronte all’esplicita egemonia della cronaca, della noia, della povertà intellettuale di cui infarciti sono i quotidiani odierni, fa sì che capiti raramente di trovarmi a leggerne uno.

Ma Mercoledì 4 Novembre 2009 lessi che Domenica 1 Novembre 2009 sarà da ricordare perché giorno della morte di Claude Levi-Strauss.

Molto spesso incontrato in citazioni e richiami, conosciuto come l’antropologo strutturalista, mai lessi però un suo libro.

Gli articoli che richiamavano la notizia erano di pregevole caratura, ed oltre che stimolarmi all’acquisto di Tristi Tropici, iniziarono a presentare Levi-Strauss come notevole intellettuale, riferimento anche come pensatore e filosofo.

Questo prerogativa è esplosa come luce improvvisa in Fine dei Viaggi, primo capitolo appunto di Tristi Tropici, e queste righe ne sono la continuazione.

Cosa dice, cosa osserva di essenziale Levi-Strauss?

Il capitolo è la precisazione dell’invettiva iniziale, fortemente paradossale, dove dice di odiare i viaggi e gli esploratori. Il tentativo cioè di dire del suo impulso di esploratore come impulso al viaggio, alla curiosità intellettuale, all’attitudine a formulare domande.
Senza viaggio intellettuale ecco l’esploratore che va pensando al riconoscimento pubblico quando tornerà carico di fotografie, di oggetti esotici da presentare in società per poter attrarre ed affascinare, per poter scrivere racconti di viaggio tanto vuoti ed intellettualmente poveri, tanto carichi di effetto e di spettacolo.

Esploratori come emblema della società che già alla fine degli anni Trenta si pensava evoluta perché fondata sul concetto di progresso storico – tecnologico, distinguibile dal regresso, dalla stanzialità, dalla staticità delle popolazioni che Levi-Strauss andava incontrando.

Qual’è l’assoluta novità nella teorizzazione di Levi-Strauss?

Egli dice che queste popolazioni, queste tribù, erano sospese in una cristallina innocenza, in una spensierata armonia sociale, tanto da pensare che non avessero nulla da attendersi dalla società dove tutto è tradizione e costume.

Gli indigeni non erano eterni bambini, ma erano sospesi in una infantile eternità.

Come togliersi di dosso il sociale, l’umanità in cui si trovavano ad abitare, come infrangere il confine di un territorio regolamentato, come trovare la potenza necessaria per sovvertire l’ordine sociale a favore dell’audacia individuale?

Cercavano di misurarsi in prove estreme, isolamenti, autotorture, digiuni in cui incontrare creature e spiriti magici che gli avrebbero permesso un riconoscimento, un distinguersi rispetto al popolo.

L’estrema ricerca di potenza per potersi togliere dal sociale era invece presentata da gran parte degli esploratori come spettacolare fenomeno per la loro ricerca di fama e successo, per poter dominare nel sociale.

Questa la lettura che faceva Levi-Strauss.

Oggi, osservando i bambini, si nota che sono attratti dalla magia e dalla creature magiche, senza capricci e senza richiamare l’attenzione su di se.

La magia, il mago, l’interprete dei sogni. La questione è quella del sogno.

Cosa manca al bambino irrequieto, che urla fuori tempo, aritmato, che si arrabbia?

Manca l’elaborazione, l’articolazione, il dissolvimento narrativo, presenta la virtù del labirinto, dell’ipotiposi, ove l’elaborazione è primitiva, ancestrale, arcaica, grezza, abbozzata, scarabocchiata.

Nell’attraversamento del labirinto l’incontro con la semplicità.

Occorre che il paradiso attenda, non si possono eludere le difficoltà del fare.

Come diceva Carmelo Bene non si possono leggere i Classici prima di aver letto Joyce.

Invece oggi l’esuberanza del bambino è demonizzata, si tenta di sedarla con lo psicofarmaco.

I bambini sono grandi esploratori, perché continuano comunque il viaggio.

Così Levi-Strauss: “Ormai il passaggio è possibile. In modo inatteso, fra me e la vita, il tempo ha allungato il suo istmo; venti anni di oblio sono stati necessari per condurmi di fronte a un’esperienza antica, di cui una ricerca vecchia quanto il mondo mi aveva un tempo rifiutato il senso e tolto l’intimità”.

Ovvero il passato procede dal futuro, dal fare, dalla dimenticanza, dall’oblio, non senza solitudine ed intimità.

Intimità che non è dentro-fuori, ma qualcosa di assolutamente incondivisibile, tutt’altro rispetto all’intima amicizia.

Il passato, cioè un senso che è sensuale, che dice che in atto vi è scrittura dell’esperienza, che propone l’apertura necessaria alla relazione tanto autentica quanto impossibile.

Nessuna ricerca possibile del passato, per poterlo immortalare e vivere di ricordi.

Nessuna riuscita appiccicandosi addosso esotismo per attrarre e richiamare attenzione.

 

4 Novembre 2009

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