INNO AL DOLORE

 

 

Come incipit:

 

 

“Oh se tu capissi:

chi soffre

chi soffre non è profondo.”

Sobborghi di Torino. Estate. Ormai

c’è poca acqua nel fiume, l’edicola è 

chiusa.

“Cambia, non aspettare più.”

Vicino al muro c’è solo qualche

macchina.

Non passa nessuno. Restiamo seduti

sopra il parapetto “Forse puoi ancora

diventare solo, puoi

ancora sentire senza pagare, puoi entrare

in una profondità che non

commemora: non aspettare nessuno

non aspettarmi, se soffro, non

aspettarmi.”

E fissiamo l’acqua scura, questo poco

vento

che la muove

e le dà piccole venature, come un legno.

Mi tocca il viso.

“Quando uscirai, quando non avrai

alternative? Non aggrapparti, accetta

accetta

di perdere qualcosa.”

 

Milo De Angelis

Viene la prima, da Somiglianze, Guanda, 1976

 

 

E quindi un prosieguo:

 

 

Chi soffre non è profondo, non è umile

Fondo, terra, radici, humus, umiltà

La profondità non alternativa alla superficie

Perché non uscire

anche quando il fiume non è fondo?

Cosa aspettare? A cosa aggrapparsi pur di soffrire?

La sofferenza, la profondità, la soteriologia, il soggetto, la sostanza

l’inconscio come pozzo nero

di anime traghettate da psicopompi

 

Esci

puoi ancora accedere alla solitudine, all’ascolto, alla scommessa

che non ti appartengono, che mai ti potranno appartenere

Che grande vittoria

la perdita dell’idea di se, dell’altro, del mondo

del tempo che finisce

L’ascolto, la generosità, l’amore

Dice Lacan

“Dare quello che non si ha a qualcuno che non lo vuole ricevere”

 

Viene la prima

Che è già seconda senza essere mai stata

La vita che si scrive

come una storia che inventa il proprio copione

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