La questione ebraica

 

Negli spettacoli di Moni Ovadia è sempre presente quella risata, quell’umorismo, quell’autoironia del Witz ebraico, mai volgare, mai scontata, destabilizzante contesti tragicamente drammatici.

Un esempio di queste storielle: un’ebreo prigioniero della Gestapo viene pestato a sangue perché confessi ai carcerieri dove si nascondono i compagni. Squilla il telefono nella centrale di polizia. E’ un polacco che parla solo in ebreo e i soldati non capiscono. Chiamano l’ebreo ormai morente perché traduca quello che stanno dicendo al telefono, e lui con le ultime forze di cui dispone, imitando nel suo accento la lingua tedesca, risponde e si presenta come ufficiale della Gestapo.

Dov’è la questione ebraica?

Non si tratta di ricordare la Shoah come evento ontologizzato per scongiurare che possa avvenire in futuro.

Non si tratta di rivolgersi ad atteggiamenti di rivalsa, di vendetta, di rivendicazione della Terra Santa da parte di guerrafondai come Sharon.

Occorre proseguire rilanciando magari la domanda che sorge spesso a chi analizza la Shoah, cioè perché gli ebrei si sono fatti massacrare e non hanno reagito?

Da dove proviene questa loro pazienza sovversiva?

Anche di fronte alla morte inevitabile hanno riproposto il loro witz, hanno inventato storie come quella che il regista Radu Mihaileanu fa raccontare allo shnorrer (il pazzo-sapiente, il matto del villaggio) nel film Train de vie.

Chi sono questi ebrei? Chi sono, come dice l’etimo ebraico ‘ihbrij, coloro che vengono da lontano, dalla regione al di là, coloro che sono stati immaginati come persecutori nel discorso paranoico di Hitler (discorso presente in altri dittatori come ad esempio Stalin) poi sfociato nel genocidio verso chi era classificato come ebreo?

Costoro erano gli ebrei ashkenaziti, abitanti dell’Europa centro-orientale, che pensavano la parola askenaz come Germania e parlavano l’yiddish.

( Che bellezza investigare negli etimi delle parole: yiddish = forma inglese per indicare l’ebraico yidish -> tedesco e rappresentante l’alterazione dell’aggettivo tedesco judisch -> ebraico ).

Questa lingua era basata su un dialetto alto-tedesco, ricca di parole d’origine ebraica, aramaica, slava. Una lingua sempre in costruzione, ingrammaticabile, basata sul significante, sulla musicalità che guida l’enunciazione.

Questa lingua, questo dialetto, tanto aveva scosso Kafka quando l’aveva incontrato, ed è stato fondamentale per consentirgli di giungere a scrivere gli straordinari racconti e le storie fantastiche divenute contributo per l’umanità tutta.

Sogni e deliri nei quali sembra che sia scritto un po’ tutto della condizione umana. Ma Kafka non ci parla della condizione umana, ne era nei suoi intenti, è la condizione umana che si è scritta nelle sue pagine.

Costoro erano gli ebrei della diaspora, ebrei erranti senza terra e senza confini, senza burocrazia e senza esercito, senza patria eppure fortemente popolo.

Ma di che popolo stiamo parlando?

Non di quello Israeliano, autoreferenziato che si considera discendente consanguineo quando la madre è ebrea.

Stiamo parlando del popolo del libro, il popolo della Torah, i testi sacri, ma anche e principalmente del Talmud, le continue interpretazioni della Torah.

Una Torah quindi che non va senza Talmud.

Un’interpretazione singolare a ciascuno, mai definitiva, riferita a ciascun libro, a ciascuna esperienza, perché sarebbe mortifero leggere un libro senza scriverne un altro, senza il racconto di ciò che si pensa aver letto, senza la messa in gioco di ciò che si è interpretato.

Proverbiale il continuo racconto ebraico, la continua discussione anche nella sinagoga.

Un popolo che trova continuamente il suo statuto nell’associazione, nella conversazione. Non associazione di individui, di consanguinei, di conterranei, ma associazione di parole.

Non possiamo rivendicare il loro massacro, né condividere perché non abbiano reagito. Possiamo solamente cogliere la testimonianza della quale siamo immensamente grati, cioè di come non cedere dal proseguire il racconto.

Questo popolo era nato e procedeva nel racconto, non poteva reagire nelle stesse modalità con cui veniva attaccato. Per loro la vita e la libertà erano nella parola e nel racconto. Sarebbe stato morire veramente il reagire ad un discorso che ontologizza la morte abbandonando la vita che è nella Parola.

Quello che proponeva quel fantastico popolo non era un discorso di sapere. Non sapevano cosa avrebbero testimoniato, il loro atto non era un gesto eroico, ma semplicemente sentivano la morte come morte della Parola e del racconto nel quale continuavano a rinascere.

Ad un discorso mortifero non potevano che proporre la vita autentica.

 

18 Maggio 2005

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