I Farmer dello Zimbabwe

 

Notizia straordinaria di qualche giorno fa. Straordinaria non perché clamorosa, non perché urgentemente da comunicare, non perché terroristica, non per i morti che deve aggiornare, non per la sciagura che deve rappresentare, non perché dell’ultimo minuto, ma perché raccontava qualcosa fuori dall’ordinario che assumeva i connotati della favola.

Nel 2000 vi erano nello Zimbabwe centomila farmer, possidenti terrieri accomunati dall’aver la carnagione bianca, dall’essere una minoranza rispetto ai sedici milioni dotati di pelle nera, ma possedenti il settanta per cento delle terre fertili. 
Coltivavano queste terre con metodi moderni, e coadiuvati nel lavoro da trecentomila famiglie di neri producevano il fabbisogno dell’intera popolazione. Le loro esportazioni rappresentavano il novanta per cento di quelle del Paese.
Poi la riforma agraria del Paese, che si tradusse nell’esproprio delle terre senza alcun risarcimento per i possidenti. Esproprio e quindi ridistribuzione a favore delle popolazioni di neri senza terra. Esproprio come ultimo atto del presidente dittatore Robert Mugave, che per conservare il potere necessitava nuovamente di un nemico da rappresentare, così da giungere ad adottare l’idea di giustizia del prendere ai ricchi per dare ai poveri.
La situazione attuale dello Zimbabwe presenta fattorie completamente allo sfascio per incuria ed incapacità di gestione, così come l’intero Paese, globalmente nella stessa condizione di degrado ed abbandono.
Invece i farmer hanno ricevuto recentemente da parte della Nigeria, oltre ad un prestito di venticinquemila dollari, la concessione di quindicimila ettari per venticinque anni, per poter riprendere l’attività di agricoltori e trasmettere ai contadini locali un’agricoltura imprenditoriale legata indissolubilmente alla dimensione del mercato.
E’ paradossale che discendenti di chi colonizzò in maniera a dir poco violenta l’Africa, ricevano ora dai colonizzati un’opportunità per ricominciare. 
Dopo incursioni, rivoluzioni, massacri, spargimenti di sangue, l’unica cosa che consente di andare oltre tutte le rivendicazioni possibili è l’etica.
 Malgrado in passato i farmer non siano stati sempre scrupolosi verso i diritti umani alla dignità, si coglie come il procedere etico abbia comunque trasformato le ultime generazioni in imprenditori esemplari. La loro feroce determinazione, le loro opere agricole sono state così ammirevoli che gli si offre l’opportunità per ripartire.
L’essere nel fare ha permesso lo sviluppo delle mirabili coltivazioni, ha consentito di sopportare l’affronto della confisca dei beni, ha reso possibile attendere perché qualcosa accadesse.
 Ora sono pronti a ripartire, forti della fede che procede da un discorso etico ed imprenditoriale che non permette mai di sentirsi arrivati.
Altrettanto etici i governati della Nigeria, senza moralismi e vittimismi pronti alla scommessa innanzitutto intellettuale fondata sulla cultura in atto.
Anche in analisi si pensa che la riuscita dipenda dal sapere e dalla conoscenza dell’analista, invece che dal saperci fare nell’indurre e nel provocare l’analizzante alla parola che agisce, che punta al racconto, al viaggio, alla riuscita intellettuale. 
Nessuna predestinazione, nessun ideale da perseguire o sul quale rappresentarsi, solo pulsione che s’indirizza s’alimenta e si soddisfa nell’occorrenza, procedendo eticamente, sempre e comunque da libere associazioni.
I contadini nigeriani penseranno di apprendere un sapere dai farmer dello Zimbabwe, ma accadrà che si troveranno nel fare e quindi svilupperanno anch’essi il discorso industriale, imprenditoriale.
 L’abbaglio è che ci sarebbe un metodo, un discorso industriale solamente da apprendere in quanto tale, che starebbe prima di cominciare a parlare, prima di iniziare a fare. Ma l’analisi, così come i farmer, insegna che l’industria è nel fare, attributo della parola, del gerundio, del viaggio.

10 Agosto 2005

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