L’abilità

 

Corso di formazione per educatori “La disabilità come specchio della norma” – Villa Lauro, Torino 27 Settembre 2014

 

Pare che mediamente un medicinale funzioni nel 40% dei casi per effetto placebo, cioè su cento persone a cui è stata somministrata acqua fresca dicendogli che era X medicinale, quaranta sono migliorate o guarite.
La percentuale di chi guarisce o migliora prendendo la molecola di medicinale presunto idoneo per tal malattia è molto simile, tanto che un medicinale per essere annoverato nella lista dei medicinali deve superare la soglia placebo.
Immaginarsi cosa non escogitino la case farmaceutiche, appieno nel meccanismo che gli utili e le vendite debbano sempre aumentare in maniera algebrica sul versante monetario, per far superare tale soglia.

Perché solamente per il 40% funziona il placebo?

Ma del 40% di quelli che hanno avuto benefici prendendo il farmaco, quanti sono quelli per i quali ha influito la suggestione, funzionando ancora quindi l’effetto placebo? Anche qua le case farmaceutiche sono molto accorte nel dare nome allusivi ai farmaci, come ad esempio la serenità del Serenase.
Allora l’efficacia di un farmaco sarebbe da riscontrare solamente su una persona inconsapevole di riceverlo, inconsapevole di essere cavia, ma le condizioni per ricreare un tale neutralità sono difficili da ottenere (con circostanze che potrebbero ricordare il film The Truman Show); oltre il fatto che su malati gravi non c’è proprio il tempo di sottoporli a sperimentazioni, ci si affida in genere a ciò che già si pensa funzioni, senza necessità di essere testato.
Oppure si sperimenta su cavie animali.

La meccanica quantistica ha il suo postulato nel principio di indeterminazione, e poi quindi l’inevitabilità dell’errore tecnico, dell’errore del tecnico, dell’errore dell’osservatore, ma come chiamare l’impossibilità di determinare con esattezza chi è l’osservatore e chi l’osservato, ruoli che se determinati consentono di ricreare a piacimento il teatrino della simulazione, del caso clinico?

Su problematiche di persone ospitate in questi istituti, o su neonati, accadono cambiamenti e si trovano soluzioni assolutamente all’insaputa della persona stessa.

Lodari ha riportato l’esempio dell’ospite che non voleva più uscire dalla camera, e come solo dall’urgenza dell’interrogazione di equipe sia giunta la svolta inaspettata (la discesa in giardino della stessa), proprio mentre era in atto l’incontro di equipe.

Carlo Sini nel libro L’uomo, la macchina, l’automa, mette in dubbio il come ci si rivolge oggi agli specialisti, nella fattispecie il ginecologo e il suo sapere scientifico, a discapito dell’attenzione e la cura rispetto ad una problematica come un parto; lo fa ricordando di come le puerpere egizie si rivolgessero alla dea Iside perché fosse propizia al parto prossimo venturo, ovvero nulla di scaramantico, nulla di una religiosità metafisica, ma cura e dedizione assolute nel coltivare i fiori e nell’addobbare il tempio della dea, permettevano loro di sviluppare abilità di giardiniere ed arredatrici sopraffine.

Chi vi parla è diventato da poche settimane padre per la prima volta. C’è stata una considerevole sequenza di notti insonni, dovute ai pianti e ai tormenti della piccola; ed ecco una riunione di famiglia domenicale, con anche le cugine già madri da qualche anno, che partecipavano in maniera attiva ai racconti e alle ipotesi di possibili soluzioni; l’attiva maniera per dire che non c’era il pettegolezzo spesso solito in queste riunioni, e la partecipazione andava non senza un contorno di entusiasmo e riso (forse che un sapere inconsapevole portasse le famiglie di una volta ad avere molti figli? Forse perché un neonato e la sua stranianza sono risorse preziosissime in una famiglia?).
Così sulla scorta delle idee del pomeriggio, alla piccola viene fatto un bagno caldo e viene calzata una tutina prima di affrontare la notte, che avrebbe poi riservato uno step di sonno addirittura di cinque ore.
Ovviamente non si trova mai la regola, il metodo, la norma incontrovertibile, e gli stessi accorgimenti non hanno certo funzionato nelle notti a seguire.

Ospiti di questi istituti, o un neonato, consentono con più facilità di essere trattati come non facenti parte dell’insieme dei simili, delle altre persone, ma come casi letterari, perché con essi non è agevole perseguire la comunicazione, la socializzazione.

Generalmente non ci si accorge (l’analista è molto ben accorto, l’analizzante magari ci mette anni) che anche le problematiche della vita di tutti i giorni, o con se stessi o con le altre persone, sorgono perché non si affrontano queste vicende con il distacco necessario a renderle appunto casi letterari, casi narrativi.
Prendendo spunto dalla tripartizione lacaniana reale – simbolico – immaginario, oggi, epoca in cui il determinismo malgrado la fisica quantistica ha trovato comunque sostegno e supporto dalla tecnologia per avvalorare una realtà razionale, si assiste alla estrema difficoltà, quasi alla rinuncia a tentare di togliersi dalle pastoie di un immaginario decaduto nel quale ci si trova ad annaspare.
Nelle esemplificazioni di Lacan rispetto all’immaginario vi era la cavallitudine, ovvero il dare per scontato che da due cavalli nasca un cavallo e non un gatto; ma questo è l’immaginario che è incategorizzabile, tiene e partecipa alla riuscita, al proseguimento, solo se rimane incategorizzato; invece ecco che l’umanitudine si è dicotomizzata in normalitudine, ed ecco il non saperci far o con le altre persone normali, i simili, o con quelle non normali (qualcuno butta i neonati nel cassonetto), ed ecco la disabilità come specchio della norma, il voler rendere tutti normali.
La norma, la squadra per poter misurare gli angoli retti, il minimo comune multiplo per poter far entrare tutti nella categorizzazione insiemistica, per la conoscenza come gnosi, per poter fondare il discorso giudiziario, il discorso manualistico dei vari DSM, nient’altro che un insieme di dicotomie sintomo – malattia in crescita esponenzialmente: “siamo tutti uguali, siamo tutti malati, siamo tutti da curare, compresi gli infanti”.
“ Così vi dico per metafora a voi che fate girare la testa alle anime, voi predicatori dell’uguaglianza! Per me siete delle tarantole e segretamente vendicativi….Voi predicatori dell’uguaglianza, attraverso di voi la follia tirannica dell’impotenza cerca gridando l’uguaglianza: le vostre più segrete voglie di tirannia si camuffano così da parole di virtù!…La giustizia infatti a me dice: – gli esseri umani non sono uguali…e non devono neppure diventarlo! – ” [ F. Nietzsche, Delle tarantole – Così parlò Zarathustra]

Placebo: prima persona singolare del verbo latino placere, ovvero piacerò; cioè le cose funzionano, le risorse per andare oltre l’ostacolo giungono dal futuro e non possono fare a meno della scommessa.
Quella conversazione, quell’associazione, quella relazione chiamata psicanalisi, si gioca sulla scommessa.

L’abilità e l’avere, avere un ambito, avere una specializzazione nella quale ci si muove con disinvoltura, con facilità.
Ma alla facilità, alla semplicità si giunge grazie all’esercizio, grazie alla scrittura della traccia, una traccia impalpabile.
L’abilità potrebbe dunque dirsi come Il non dell’avere, la non padronanza sulle cose.
L’abilità e il percorso che non ha mai un passato, non è innata.
Non ho idea sul futuro, non mi rappresento, non rappresento il mondo, gli altri, procedo dal racconto, dall’elaborazione, dall’articolazione dell’occorrenza e su questo racconto sono pronto a scommettere (questo il pagamento della conversazione analitica).
Nello sport di sente spesso: “Occorre dare tutto”…no, occorre dare quello che non si ha.

L’abilità come specchio della norma.
Se lo specchio è da intendersi nell’accezione generalmente oggi usata, ecco che la disabilità è la perbenistica versione dell’anormalità, atta ad esorcizzare l’inquietudine collegata a tutto ciò che non è normale, anormale o paranormale.
E quindi il disabile si specchia nel normale, è normale, è uguale a tutti, tutti sono uguali e tutti hanno gli stessi diritti, compreso quello di avere le ParaOlimpiadi.

Ma il fenomeno delle ParaOlimpiadi non è molto per mettere a tacere una sorta di senso di colpa di chi si sente più fortunato ad essere abile nell’accezione standard?

Come mai il doping è più diffuso in ambiti di paratleti o di amatori senior?
Forse perché non hanno trovato modo di elaborare la disgrazia occorsagli?

Perché, sia come amatore senior che come paratleta, occorre imitare il modello dell’atleta nel suo massimo fulgore?

Ma i bambini imitano? O i bambini procedono dall’identificazione?

Anche seguendo l’idea che le competizioni sportive tra Stati e tra persone vadano avvalorate perché non hanno i morti delle guerre vere, perché mandare in guerra i vecchi e gli invalidi?
Nietzsche diceva che occorre andare verso il Superuomo, oltre se stessi, nell’Olimpo, per essere un Dio, per poter danzare. Ma occorre andarci ciascuno in maniera differente, in circostanze che comunque variano, non sono sempre le stesse.
L’olimpiade è sempre in atto, è qualcosa a cui puntare e che deve passare dal tramonto degli ideali condivisi, dell’idea e delle rappresentazioni di se stessi, del mondo e degli altri.

Negli amatori master (italiani) il discorso che va per la maggiore è la critica al sistema, alla federazione, che non fa bene, non fa abbastanza per la crescita di una scuola, di un movimento che porti l’Italia ad avere più atleti di altissimo livello.
E’ come se questo discorso negativo, triste, provenisse dall’aver perso il proprio fantasma, in quanto è passata l’età di giungere al Superuomo, all’Olimpo, come atleta, e quindi non si riuscisse a proseguire se non in una routine che diventa imitativa.
“ Superiore ancora all’amore per gli esseri umani è l’amore per le cose e i fantasmi. Questo fantasma che corre davanti a te, fratello mio, è più bello di te; perché non gli dai la tua carne e le tue ossa? Ma tu hai paura e corri dal tuo prossimo. ” [ F. Nietzsche, Dell’amore per il prossimo – Così parlò Zarathustra]

Ma quali sono i valori che una pratica sportiva, più che trasmettere, dovrebbe suscitare ai praticanti?
Imparare a perdere? Rispettare l’avversario? Rispettare le regole? Socializzare? Non sono queste frasi scolastiche, semplicistiche, buonistiche, educative?

La lettura del libro di Gilli ci direziona invece sulla fondamentalità dello sport come arte del corpo.

Nella mio sito La vita che si scrive si può trovare Il gioco e l’impresa del tennis, dove tento di dire come nel tennis si possano rintracciare i modi per intenderlo non un’impresa da eroi, ma un’attività imprenditoriale, associativa e non sociale, e come il gioco sia appunto questo giocare, questo esercizio del corpo.

Vi assicuro che incontro molte persone, atleti o maestri, che non lo intendono così.

Che io lo possa intendere e vivere così lo devo al percorso intellettuale ed artistico, al viaggio culturale ed imprenditoriale dell’analisi, che è cominciato come analizzante e ora da qualche anno come analista, e che ha integrato nel suo viaggio anche il dispositivo di scrittura.
Anche la lettura è dispositivo di scrittura.

Qual’è l’abbaglio sociale che rischia di legittimarsi in ambiti contenitivo, educativo, abilitativo, rispetto a disabili fisici o “mentali”?
E’ che occorra aiutare queste persone ad integrarsi in società, a comunicare, che occorra intendere ed interpretare i loro comportamenti per farne una cernita e giungere ad avere quelli da avallare o quelli da cancellare.
E non che occorra puntare anche in questi ambiti all’interlocuzione, all’ascolto, perché qualcosa possa giungere a scriversi. Solo se c’è scrittura un corpo può danzare. Nulla si scrive senza la danza.

Qualcosa prende corpo, prende forma; qualcosa si staglia dalla scena, ma la scena non è la scena madre, non è la scena originaria con tanto di trauma originario.
Non c’è prima un corpo o una scena: corpo e scena e il corpo procede e non si origina dalla scena.
Nella scrittura della scena qualcosa prende corpo, ma paradossalmente è la scena che procede dal corpo.
E’ la questione del significante e del nome, dell’uno e dello zero. Come ricordava Gilli non è possibile fare tabula rasa e partire da zero, ma l’uno procede dallo zero.
E’ la questione del figlio e del padre.
E’ la questione di chi giunge alla scrittura, di chi pone il proprio nome come pseudonimo di una storia che inventa il proprio copione, tanto ben espressa da Gabriel Garcia Marquez in Cent’anni si solitudine.
Dedico a lui, al suo libro, il mio intervento odierno.

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