La paura della propria ombra

 

Per poter montare sopra Bucefalo, quello che diverrà il suo cavallo, quello che si farà montare solo da lui, Alessandro Magno dovette metterlo rivolto verso il sole, perché avevo colto che Bucefalo aveva paura della propria ombra.

Certo Bucefalo aveva trovato Alessandro il conquistatore, l’avventuriero, il trascinatore, ma non ha tutti è concesso ciò. Come dunque non aver paura della propria ombra e quindi mettersi in viaggio, alla ventura, intraprendendo battaglie, cavalcando imprese e progetti?

Come essere in viaggio, essenzialmente errando, senza perdere il filo e la direzione?

Come cavalcare anche la paura senza necessità di attutirla, di sedarla nell’abbaglio, nell’indefesso indaffaramento, o nell’apoteosi salutistica e salutare dell’incivilito benessere, della morte bianca, dove il sapere non è saperci fare, non è tensione verso la conoscenza, ma è garantito, riconosciuto, congelato dal diploma e dall’albo professionale?

Quale paura che non sia paura della propria ombra, che non sia paura della paura?

Se l’ombra sta innanzi le cose procedono illuministicamente dalla luce.

Differente se le cose, se la luce, come diceva Leonardo, procede dall’ombra, dall’immagine senza corpo, perché il corpo è per la Gloria, per l’Ascolto, per l’abduzione, per l’integrazione.

Se l’immagine è del corpo, è perché il corpo è già soma, il corpo morto, il corpo del reato, il corpo sacrificale…come dicono i sardi rispetto al corpo appena divenuto cadavere “Su corpu s’assomat”.

La paura è originaria, la paura va accolta nel suo albeggiare.

Qualsiasi idea evoluzionistica dice che la paura è stata espunta, che l’alba è stata espunta, che l’incominciamento è stato espunto, per fare tutto alla luce del sole, per celebrare l’apoteosi dell’illuminismo, l’apoteosi del soggetto, della società razionale, dello Status Quo, dello Standard, dove ogni cosa è alla sua stagione, celofanata, risparmiata, preservata, dove le cose iniziano e finiscono.

Gli illuminati predecessori non sono certo mancati, fra tutti i Romani, che Tacito cifrò così: “Hanno fatto il deserto e lo chiamano pace”.

Ma le cose, le imprese, le invenzioni, per compiersi e non finire, non possono fare a meno dell’alba, dell’incominciamento.
Se le cose si compiono entrano nell’eternità, non sono mai state. Di invenzione in invenzione, di novità in novità.

Le cose si compiono: ecco la tecnica e lo stile. Le cose non finiscono: ecco l’arte e la danza.

La questione del Figlio annunciata nel Nuovo Testamento è la questione per poter essere nell’erranza, nell’itinerario.

Il Figlio che procede dal Padre, “procede”, è essenziale alla procedura. Se le cose iniziano e finiscono, girano in tondo ma non procedono, non prendono altre pieghe.

Se c’è prima l’investimento, se s’investe sul figlio, ecco che si sacrifica il Figlio, lo s’investe del ruolo di padre, ed ecco dei piccoli ometti che proprio non riescono (e per fortuna) ad assimilare l’idea del sacrificio e della volontà.

La psicopompica frase “occorre commettere il parricidio” dice del perpetuarsi dell’infanticidio, che sotto l’egida del senso di colpa, della colpa che trova il suo senso, inverte la rotta per evitare il controsenso, e si volge quindi al Padre.

Nel viaggio, nella battaglia ove l’ostacolo non è avverso, non occorre uccidere alcuno, occorre invece scommettere sul Figlio.

Ma il Figlio, così come l’ombra, e come il talento, non è mai il proprio figlio, non è genealogico, ha che fare con il genio, l’ingegno, l’ingenuità.
Per la riuscita non si può “commettere” alcunché, perché la scommessa è procedere tra l’occorrenza e la provvidenza. Procedendo da ciò che occorre fare perché il progetto e l’impresa possano continuare a scriversi.

Procedendo dalla scommessa ecco che s’incontra l’investimento, si è investiti dall’entusiasmo.

Procedendo dalla rappresentazione dell’investimento ecco l’euforia e quindi l’inevitabile disforia.

Oggi quindi, periodo del perbenismo standard, capita nel tennis che qualche ragazzo sia talentuoso, che riesca ad accedere alla genialità. Se tra costoro si arriva ad esempio alla formulazione “mi piacerebbe provarci a vincere Wimbledon”, (perché non basta ancora “mi piacerebbe vincere Wimbledon”) ecco che occorre giunga la scommessa, cioè l’idea sia accolta perché possa essere elaborata, quindi dimenticata, quindi si trovi ad operare.

Gli ostacoli che sembrerebbero principali nel tennis sono l’importante quantità di denaro da spendere, oltre che la sospensione della scuola per qualche anno.
Ebbene sul versante monetario si registrano le più clamorose scuse da parte dei genitori, che fanno comunella, che si confermano l’un l’altro nel decidere di non procedere. Clamorose scuse in quanto molto spesso il tennis è praticato in famiglie benestanti.

Ma l’incredibile è lo smarrimento, l’improvviso pallore dei genitori, dei famigliari, degli amici ben pensanti e consiglieri, addirittura dell’estraneo che si cala nella parte del giudice imparziale, attimi in cui si cifra, si dipinge “la paura della propria ombra”: “Ma nooo, e se poi il ragazzo non c’è la fa a sfondare e si ritrova senza diploma”….o anche “meglio un ragazzo colto che un tennista ignorante”.

E’ proprio in quella rappresentazione, in quell’ombra che si cala innanzi, in quel “E se poi il ragazzo non c’è la fa?”, che la partita, la partita della vita, è già persa.

Inevitabilmente pochi saranno quelli che vinceranno Wimbledon, ma molti possono accedere alla vittoria nella vita, all’essere nel viaggio e nell’impresa che non evita e rappresenta l’ostacolo, che procede dalla scommessa, tra l’occorrenza e la provvidenza.

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