Cristo si è fermato a Eboli

 

Così l’autore, Carlo Levi, nel preambolo introduttivo, per dire appunto del titolo Cristo si è fermato a Eboli, per dire della Lucania, terra in cui lui passò un paio d’anni come esiliato nel 1935-36: 

 

[“Noi non siamo cristiani”, essi dicono. “Cristo si è fermato a Eboli”. Cristiano vuol dire nel loro linguaggio uomo: è la frase proverbiale che ho sentito tante volte ripetere, nelle loro bocche non è forse nulla più che l’espressione di uno sconsolato complesso di inferiorità. Noi non siamo cristiani, non siamo uomini, non siamo considerati come uomini, ma bestie, bestie da soma, e ancor meno che le bestie, i fruschi, i frusculicchi, che vivono la loro libera vita diabolica o angelica, perché noi dobbiamo invece subire il mondo dei cristiani, che sono di là dell’orizzonte, e sopportare il peso e il confronto. Ma la frase ha un senso più profondo, che nei modi simbolici, è quello letterale. Cristo si è davvero fermato a Eboli, dove la strada e il treno abbandonano la costa di Salerno e il mare, e si addentrano nelle desolate terre di Lucania. Cristo non è mai arrivato qui, né vi è arrivato il tempo, né l’anima individuale, né la speranza, né il legame tra la causa e gli effetti, la ragione e la Storia. Cristo non è arrivato, come non erano arrivati i romani, che presidiavano le grandi strade e non entravano fra i monti e nelle foreste, né i greci, che fiorivano sul mare di Metaponto e di Sibari: nessuno degli arditi uomini di occidente ha portato quaggiù il suo senso del tempo che si muove, né la sua teocrazia statale, né la sua perenne attività che cresce su se stessa. Nessuno ha toccato questa terra se non come un conquistatore o un nemico o un visitatore incomprensivo. Le stagioni scorrono sulla fatica contadina, oggi come tremila anni prima di Cristo: nessun messaggio umano o divino si è rivolto a questa povertà refrattaria. Parliamo un diverso linguaggio: la nostra lingua è qui incomprensibile. I grandi viaggiatori non sono andati al di là dai confini del proprio mondo; e hanno percorso i sentieri della propria anima e quelli del bene e del male, della moralità e della redenzione. Cristo è sceso nell’inferno sotterraneo del moralismo ebraico per rompere le porte del tempo e sigillarle nell’eternità. Ma in questa terra oscura, senza peccato e senza redenzione, dove il male non è morale, ma è un dolore terrestre, che sta per sempre nelle cose, Cristo non è disceso. Cristo si è fermato a Eboli]….

….

[quell’altro mondo è serrato nel dolore e negli usi, negato alla Storia e allo Stato, eternamente paziente, senza conforto e dolcezza, dove il contadino vive, nella miseria e nella lontananza, la sua immobile civiltà, su un suolo arido, nella presenza della morte….].

E quindi Levi vent’anni dopo rispetto al suo libro

[… e l’eternità individuale di questa vicenda, la Lucania che è in ciascuno di noi, forza vitale pronta a diventare forma, vita, istituzioni, in lotta con le istituzioni paterne e padrone, e, nella loro pretesa di realtà esclusiva, passate e morte….chi era dunque quell’io, che si aggirava guardando per la prima volta le cose che sono altrove, nascosto come un germoglio sotto la scorza dell’albero, tra quelle argille deserte, nella immobilità secolare del mondo contadino, sotto l’occhio fisso della capra? Era forse anch’esso un’altro, un giovane ignoto e ancora da farsi, che il caso e il tempo avevano spinto laggiù, sotto quei gialli occhi animali, quei neri occhi di donne, di uomini, di fanciulli, perché si trovasse nell’altrove, nell’altro da sé, perché scoprisse la storia fuori dalla storia, e il tempo fuori del tempo, e il dolore prima delle cose, e se stesso, fuori dello specchio dell’acque di Narciso, negli uomini, sulla terra arida?…La sola grande fortuna di quel giovane fu di essere così libero dal proprio tempo, così da esso esiliato, da poter essere veramente un contemporaneo: e non soltanto un contemporaneo della contemporaneità illimitata, ma, nei fatti, un contemporaneo degli uomini nuovi, dei piccoli, degli oscuri con cui ebbe la ventura di vivere e di formarsi e di conoscersi…..Per questo il Cristo si è fermato a Eboli fu dapprima esperienza, e pittura e poesia, e poi teoria e gioia di verità (con Paura della libertà), per diventare infine e apertamente racconto, quando una nuova analoga esperienza, come per un processo di cristallizzazione amorosa, lo rese possibile….Questo processo non è, non è mai stato, di identificazione con un dato, di fuga nell’oggettività, ma è piuttosto la continua distinzione dell’amore….per questo il Cristo si è fermato a Eboli mi pare oggi il primo momento di una lunga storia, che è continuata modificandosi, e continua diversa, in me e nelle cose e nei fatti e nei cuori degli uomini, e in tutti i libri che ho scritto, e in quelli che scrivo e che scriverò].

Quando c’è poesia, teoria, racconto, quando c’è la modernità, che Levi chiama contemporaneità e che non è la contemporaneità illimitata, quando l’identificazione non è più verso un punto, una persona in carne ed ossa, ecco l’amore altrimenti detto transfert, ecco la possibilità della simultaneità atemporale che consente a ciascuno di proseguire nella scrittura di un testo che giunge a compimento senza terminare di scriversi, che consente lo spropositato uso della parola noi.

Ciascuno di noi, ovvero l’enigmatico singolare e triale.

Per giungere a compimento le cose devono dimorare nell’atto, nel fare, non sono mai state.

Cristo non può discendere genealogicamente.

In principio era il verbo non intende il passato, è un tempo imperfetto che non passa e non scorre, si compie ciò che non finisce perché non è mai stato.

Che Cristo si sia fermato a Eboli e non sia sceso in Lucania dice di un dire che diventa discorso e che riguarda sia i civili cristiani, sia i rozzi e pagani contadini lucani, che riguarda la decadenza.

In tutte le pagine di Cristo si è fermato a Eboli c’è l’approccio a questa questione, ma anche il tentare di dire che però tra i contadini c’era qualcosa di differente, compito impossibile dal quale non è però possibile esimersi, ne va della tutela e del rilancio del transfert.

Come fare a dire della differenza in atto senza rappresentarla in diversità?

[ I contadini risalivano le strade con i loro animali e rifluivano alle loro case, come ogni sera, con la monotonia di un’eterna marea, in un loro oscuro, misterioso mondo senza speranza. Gli altri, i signori, li avevo ormai fin troppo conosciuti, e sentivo con ribrezzo il contatto attaccaticcio della assurda tela di ragno della loro vita quotidiana; polveroso nodo senza mistero, di interessi, di passioni miserabili, di noia, di avida impotenza, e di miseria ]….[No, non era questo, volevo le canzoni dei contadini. Rimase un po’ a riflettere, come ad un argomento per lui nuovo, a cui non avesse mai pensato. Scrivermi le note di una canzone avrebbe potuto, cercandole ad una ad una sul clarinetto. Ma non gli veniva fatto di ricordarsi di nessuna canzone cantata dai contadini. A Viggiano cantavano e suonavano. Ma da queste parti no. C’era forse qualche canto di chiesa, si sarebbe informato. Altro non conosceva. Anch’io avevo notato, a Grassano, la stessa cosa. Né il mattino quando partono per il lavoro, né il meriggio sotto il sole, né la sera, nelle lunghe file nere che tornano, con gli asini e le capre; verso le case sul monte, nessuna voce rompe il silenzio della terra]…

….ma:

[Le donne mi pregavano, mi baciavano le mani. Una speranza, una fiducia assoluta era in  loro. Mi chiedevo che cosa avesse potuto generarle. Il malato di ieri era morto, e io non avevo potuto far nulla per evitarne la morte: ma le donne dicevano che avevano visto che io non ero, come gli altri, un medicaciucci, ma ero cristiano bono e avrei guarito i loro figlioli. Era forse il prestigio naturale del forestiero che viene da lontano, e che è perciò come un dio; o piuttosto si erano accorte che, nella mia impotenza, mi ero tuttavia sforzato di fare qualcosa per il moribondo e l’avevo guardato con interesse, e con reale dispiacere?].

L’approccio, l’interesse con cui si approccia una vicenda, prescinde dal farlo per mestiere, ovvero in assoluta mestizia, ove, oltre la speranza e il canto, non c’è soprattutto il silenzio.

Oggi, settant’anni dopo, la dedizione è solamente affaccendamento altruistico, l’artigianato e l’imprenditoria sono solo targhette presentative sotto l’egida dell’interesse monetario, del fare i soldi, così come il sapere certificato è diventato come il grado delle gerarchie, che spesso si manifesta “nel non essere in grado di fare, di dirigere” e quindi si accompagna anche al degrado, mascherato da perbenismo e salutismo della civiltà tecnologica che pensa di essere evoluta, che decide se conservare o eliminare le tradizioni.

Ma i contadini lucani sentivano ed accoglievano l’Altro interesse per le cose, il povero don Trajella un po’ meno:

[Ma, lo si capiva anche dalla sua decadenza, ai bei tempi in cui insegnava teologia al Seminario di Melfi e a quello di Napoli, don Giuseppe Trajella da Tricarico doveva essere stato un uomo buono, intelligente, pieno di spirito e di risorse. Scriveva vite di santi, dipingeva, scolpiva, si occupava vivacemente delle cose del mondo. L’improvvisa disgrazia lo aveva colpito, lo aveva staccato da tutto e l’aveva buttato come un relitto, su quella lontana spiaggia inospitale. Egli si era lasciato cadere a picco, godendo amaramente di fare più grande la propria miseria. Non aveva toccato più un libro né un pennello. Gli anni erano passati, e di tutte le antiche passioni una sola era rimasta, e aveva preso il carattere della fissazione: il rancore. Trajella odiava il mondo, perché il mondo lo perseguitava].

Ma come può una disgrazia, di qualsiasi entità e genere, ancor più un trasferimento, togliere improvvisamente e per sempre la grazia a discapito dell’abbandono, dell’abbandonarsi?

Il rancore ha a che fare con il rancido, con qualcosa di acido, divenuto acido per il contatto con l’aria: quindi l’ambiente, l’aria che si respira, diventa causa tramite l’influenza.

L’immunità è qualcosa che non consente il sorgere del sistema causa effetto, dove l’influenza non è più fluenza e quindi nessuna apertura verso l’inedito. La battaglia è sempre questione d’immunità, che non è mai in difesa rispetto all’incontro con l’ostacolo. La sanità non è salutistica ma procede dalla battaglia, esige il confronto con l’ostacolo, con questo punto chiamabile sembiante, che non consente identificazione né presa su di esso, che osta, che sta innanzi senza impedire, anzi diventa condizione per la riuscita e il proseguimento, che rilascia il nulla osta, la provvidenza.

La fortezza passa dall’accogliere la solitudine che è virtù del solus, della cosa, dell’ostacolo, dall’accogliere il dolore, il dolus delle cose, della cosa.

La fortezza, la temperanza, la tempra, il temperamento.

Se la piega, il Klinamen, le declinazioni e le varietà non sono nel fare, in atto, nella Parola, nella dizione, nel dire, ecco che le cose dipendono, sono influenzate, sono condizionate dall’aria che si respira, dal clima, dalla temperatura dei vari strati terrestri, che diventa misurabile invece che  singolare temperamento.

Le condizioni dettate ed imposte non sono ostacoli incontrati nel viaggio, tra la scrittura del programma e del progetto, dicono di una trasmissione, di un contagio, di una comunicazione  possibile in quanto diretta, eludendo la traduzione in quanto tradimento originario.

[Il paesaggio, di qui, era il meno pittoresco che avessi veduto mai: per questo mi piaceva moltissimo. Non c’era un albero, una siepe, una roccia atteggiata come un gesto fermo. Non ci sono gesti, quaggiù, né l’amabile retorica della natura generante o del lavoro umano. Soltanto una distesa uniforme di terra abbandonata, e in alto il paese bianco. Sul cielo grigio, una piccola nuvola bassa, sopra le case, aveva la vaga forma di un angelo.

I miei compagni tornarono dal fiume a mani vuote. Si misero attorno alla mia tela meravigliati di vedere Grassano, nato così dal nulla. Avevo sempre visto che, poiché non hanno i pregiudizi della mezza cultura, i contadini sono, in generale, capaci di vedere la pittura: avevo l’abitudine di chiedere loro parere sulle cose che avevo fatto. Mentre continuavo a lavorare, gli amici accesero un fuoco, per far scaldare le provviste che avevo portato, e si mangiò, lì, seduti in terra, guardando il mio quadro sul cavalletto, a cui avevamo legato delle grosse pietre perché il vento non lo portasse via. Dopo mangiato, cominciò a piovere, e non ci restò che tornare. Il quadro era ormai pressoché finito, lo si caricò sul mulo, avvolto in una coperta, e sotto la pioggia leggera ci mettemmo in cammino].

La differenza è solamente in atto, l’ascolto è solamente in atto, la lettura è solamente in atto.

Nessun segno, nessun gesto, nessuna azione possibile, per la verità occorre la sospensione e il racconto. Alcuni popoli aborigeni dicono che si può intendere la verità solo nel quadro, solo nel racconto, non ha nulla a che fare con la realtà dei fatti.

Cristo si è fermato a Eboli non è racconto dei fatti, è racconto, è teoria che continua a scriversi.

E per leggerla occorre associarsi al proseguimento della scrittura, occorre che si instauri quella che Carmelo Bene chiamava “la macchina attoriale”, che si instauri l’atto ove attore e pubblico, corpo e scena non si fondono, non fanno uno, risultando grazie all’ascolto inscindibili.

[Venne finalmente la sera della recita. Aveva cessato di piovere, le stelle brillavano mentre mi avviavo verso il fondo del paese. Non esistevano sale o saloni che potessero servire di teatro: si era scelto una specie di cantina o grotta seminterrata, e ci avevano portato delle panche, dalla scuola, sul pavimento di terra battuta. In fondo avevano costruito un piccolo palco, chiuso da un vecchio sipario. Lo stanzone era pieno di contadini, che aspettavano con meraviglia l’inizio della rappresentazione. Si recitava La Fiaccola sotto il Moggio, di Gabriele d’Annunzio. Naturalmente mi aspettavo un gran noia da questo dramma retorico, recitato da attori inesperti, e aspettavo il piacere della serata soltanto dal suo carattere di distrazione e di novità. Ma le cose andarono diversamente. Quelle donne divine, dai grandi occhi vuoti e dai gesti pieni di una passione fissata e immobile, come le statue, recitavano superbamente; e, su quel palco largo quattro passi, sembravano gigantesche. Tutta la retorica, il linguismo, la vuotaggine tronfia della tragedia svaniva, e rimaneva quello che avrebbe dovuto essere, e non era, l’opera di d’Annunzio, una feroce vicenda di passioni ferme, nel mondo senza tempo della terra. Per la prima volta, un lavoro del poeta abruzzese mi pareva bello, liberato da ogni estetismo. Mi accorsi subito che questa sorta di purificazione era dovuta, più ancora che alle attrici, al pubblico. I contadini partecipavano alla vicenda con interesse vivissimo. I paesi, i fiumi, i monti di cui si parlava, non erano lontani di qui. Così li conoscevano, erano delle terre come la loro e davano in esclamazioni di consenso sentendo quei nomi. Gli spiriti e i demoni che passano nella tragedia, e che si sentono dietro le vicende, erano gli stessi spiriti e demoni che abitano queste grotte e queste argille. Tutto diventava naturale, veniva riportato al pubblico alla sua vera atmosfera, che è il mondo chiuso, disperato e senza espressione dei contadini. In quella serata, spogliata la tragedia, dagli attori e dal pubblico, di tutto il dannunzianesimo, restava soltanto un contenuto grezzo ed elementare, che i contadini sentivano proprio. Era un’illusione, ma mostrava la verità.]….

…..e rispetto ad un’altra vicenda teatrale che gli era capitato di assistere:

[Non ho mai saputo chi fosse l’autore: forse non ce n’era uno, ma parecchi, tutti gli attori insieme. Le battute che improvvisavano si riferivano alla questione che agitava gli animi in quei giorni: ma la finezza contadina faceva sì che le allusioni non fossero mai troppo dirette, e che rimanessero comprensibili e penetranti, senza diventare mai pericolose. E, soprattutto, al di là della protesta, il gusto dell’arte li aveva trascinati: ciascuno viveva la sua parte; e la madre piangente sembrava una disperata eroina di tragedia greca, o una Maria di Iacopone; il malato aveva il vero viso della morte; il nero ciarlatano spillava il sangue dal cuore con un diletto feroce; il romano era un mostro orribile, un drago statale; e il coro assisteva e commentava, con disperata pazienza. Era, quello schema classico, un ricordo di un’arte antica, ridotto al povero residuo dell’arte popolare, o uno spontaneo, originario rinascere, un linguaggio, naturale in queste terre, dove la vita è tutta una tragedia senza teatro?]

Se non è possibile isolare una cosa dal racconto, così non lo è domandare cosa sia una cosa:

[Tutto, per i contadini, ha un doppio senso. La donna-vacca, l’uomo-lupo, il Barone-leone, la capra diavolo non sono che immagini particolarmente fissate e rilevanti: ma ogni persona, ogni albero, ogni animale, ogni oggetto, ogni parola partecipa di questa ambiguità. La ragione soltanto ha un senso univoco, e, come lei la religione e la storia. Ma il senso dell’esistenza, come quello dell’arte e del linguaggio e dell’amore, è molteplice, all’infinito. Nel mondo dei contadini non c’è posto per la ragione, per la religione, per la storia. Non c’è posto per la religione, appunto perché tutto partecipa della divinità, perché tutto è, realmente e non simbolicamente, divino, il cielo come gli animali, Cristo come la capra. Tutto è magia naturale. Anche le cerimonie della chiesa diventano dei riti pagani, celebratori della indifferenziata esistenza delle cose, degli infiniti terrestri dei del villaggio].

Ed anche la Madonna, la vergine-madre delle processioni:

[la Madonna dal viso nero, tra il grano e gli animali, gli spari e le trombe, non era la pietosa madre di Dio, ma una divinità sotterranea, nera delle ombre del grembo della terra, una Persefone contadina, una dea infernale delle messi]….

….e così le processioni:

[Al passaggio della processione, scoppiava con fragore una doppia fila di mortaretti, disposti lungo tutto la strada. Le micce si accendevano, le strisce di polvere prendevano fuoco, le bombe detonavano, i contadini si affacciavano sulle soglie con i fucili, e sparavano in aria. Il crepitio, il frastuono erano continui, interrotti soltanto dal rumore improvviso di qualche carica più grossa, che rimbombava e svegliava gli echi dei burroni. In questo chiasso di battaglia non si vedeva, negli occhi delle persone, felicità o estasi religiosa, ma una specie di follia, una pagana smoderatezza, e come uno stordimento a cui si lasciavano andare. Tutti erano eccitati. Gli animali correvano spaventati, le capre saltavano, gli asini ragliavano, i cani abbaiavano, i ragazzi urlavano, le donne cantavano].

Saper leggere, saper vivere la pittura, il teatro, ma anche l’arte forense:

[Egli sapeva a memoria i nomi di tutti i componenti le squadre di calcio di tutta l’Italia negli ultimi anni, e usava recitarmeli, come litanie, con gli occhi brillanti di piacere. Ma l’altra sua passione era ancor più vivace. Il diritto, gli avvocati, le cause in tribunale lo colmavano di estasi e di delizia. Sapeva a memoria i nomi di tutti gli avvocati della provincia, e brani delle loro cause più celebri; e in questo non era il solo, perché l’amore per l’oratoria forense è quaggiù abbastanza generale. Ma un fatto accaduto due o tre anni prima era diventato l’avvenimento più importante e beatificante della sua vita. Per qualche causetta di confini, una sezione distaccata di pretura aveva tenuto una udienza proprio qui a Grassano, e c’era venuto a parlare il più grande avvocato di Matera, il famoso avvocato Latronico. L’arringa di Latronico, Boccia la sapeva a mente intera: e non passava giorno che non la ripetesse, accendendosi di ammirazione nei passi più emozionanti. – Lupi di Accettura, cani di San Mauro, corvi di Tricarico, volpi di Grottole e rospi di Garaguso! – aveva detto Latronico nella sua perorazione. A Boccia questo pareva il più alto volo dell’oratoria universale. – Rospi di Garaguso! – andava ripetendo con compunzione e con enfasi, secondo l’umore del giorno; – proprio così, rospi di Garaguso, perché stanno vicino all’acqua, sopra il pantano. Che discorso! –].

Oltre all’insopportabile manifestato dai contadini rispetto alla ragione, alla religione, alla storia, si aggiungerà quello relativo allo Stato, rintracciabile nelle vicende che in quelle terre avevano visto l’auge del brigantaggio. Le pagine sul brigantaggio sono interessanti, sull’aspetto storico e su quello mitico, senza escludere anche qua il tentativo di andare oltre, di trovare dell’inedito rispetto all’insopportabilità contadina di assoggettamento, di essere soggetti, e rispetto alla mortifera morte statale, fagocitante, materna:

[Ma il brigantaggio dei contadini è un’altro….i suoi motivi storici, e gli interessi dei Borboni e del Papa o dei feudatari, essi non li conoscono…. Anche il loro aspetto, oggi, richiama l’immagine antica del brigante: oscuri, chiusi, solitari, aggrondati, col cappello nero e il vestito nero, e, d’inverno, il mantello; sempre armati, quando vanno nei campi, con il fucile e la scure….E’ una rivolta disumana, che parte dalla morte e non conosce che la morte…..Ma, con il brigantaggio, la civiltà contadina difendeva la propria natura, contro quell’altra civiltà che le sta contro e che, senza comprenderla, eternamente la assoggetta….La civiltà contadina è una civiltà senza Stato, e senza esercito: le sue guerre non possono essere che questi scoppi di rivolta; e sono sempre, per forza, delle disperate sconfitte; ma essa continua tuttavia, eternamente, la sua vita, e dà ai vincitori i frutti della terra, ed impone le sue misure, i suoi dei terrestri, e il suo linguaggio]…..[I conquistatori fenici, che venivano da Troia, portavano con sé tutti i valori opposti a quelli della antica civiltà contadina. Portavano la religione e lo Stato, e la religione dello Stato…E portavano l’esercito, le armi, gli scudi, l’araldica e la guerra. La loro religione era feroce, comportava i sacrifici umani….Ma quegli italiani antichissimi invece, erano contadini, senza religione e senza sacrificio….Poi venne Roma, e perfezionò la teocrazia statale e militare dei suoi fondatori troiani, che, vincitori, avevano però dovuto accogliere la lingua e il costume di vinti….Dopo questa seconda guerra nazionale, la civiltà contadina, chiusa nell’ordine romano, restò come addormentata nella sua pazienza. La civiltà feudale che, col passare di secoli, di eventi e di genti diverse, seguì, non era certo una civiltà di contadini: ma tuttavia era legata alla terra, ai confini del feudo, e perciò meno contraddittoria al non-Stato rurale. Si può dunque capire perché gli Svevi siano ancora oggi così popolari presso i contadini, che parlano di Corradino come uno di un loro eroe nazionale, e ne piangono la morte. Certo, dopo la sua caduta, questa terra, che allora fioriva, entrò nella più triste rovina. La quarta guerra nazionale dei contadini è il brigantaggio. Anche qui l’umile Italia storicamente aveva torto, e doveva perdere. Non aveva armi forgiate da Vulcano, né cannoni, come l’altra Italia. E non aveva dei: che cosa poteva fare una povera Madonna dal viso nero contro lo Stato Etico degli hegeliani di Napoli? Il brigantaggio non è che un eccesso di eroica follia, e di ferocia disperata: un desiderio di morte e distruzione, senza speranza di vittoria. – Vorrei che il mondo avesse un solo cuore; glielo strapperei, – disse un giorno Caruso, uno dei più tremendi capibanda. Questo desiderio cieco di distruzione, questa volontà di annichilimento, sanguinosa e suicida, cova per secoli sotto la mite pazienza della fatica quotidiana. Ogni rivolta contadina prende questa forma, sorge dalla volontà elementare di giustizia, nascendo dal nero lago del cuore. Dopo il brigantaggio, queste terre hanno ritrovato una loro funebre pace; ma ogni tanto, in qualche paese, i contadini, che non possono trovare nessuna espressione nello Stato, e nessuna difesa nelle leggi, si levano per la morte, bruciano il municipio o la caserma dei carabinieri, uccidono i signori, e poi partono, rassegnati per le prigioni].

Sul finale del libro Levi abbozza ipotesi per risolvere “la questione meridionale”:

[Il vero nemico, quello che impedisce ogni libertà e ogni possibilità di esistenza civile ai contadini, è la piccola borghesia dei paesi. E’ una classe degenerata, fisicamente e moralmente: incapace di adempiere la sua funzione, e che solo vive di piccole rapine e della tradizione imbastardita di un diritto feudale. Finché questa classe non sarà soppressa e sostituita non si potrà pensare di risolvere il problema meridionale…..Il problema meridionale si risolverà soltanto se sapremo creare una nuova idea politica e una nuova forma di Stato, che sia anche lo Stato dei contadini; che li liberi dalla loro forzata anarchia e dalla loro necessaria indifferenza…..questo concetto di relazione fuori dal quale l’individuo non esiste è lo stesso che definisce lo Stato…Questa strada si chiama autonomia. Lo Stato non può essere che l’insieme di infinite autonomie, una organica federazione. Per i contadini, la cellula dello Stato, quella sola per cui essi potranno partecipare alla molteplice vita collettiva, non può essere che il comune rurale autonomo….Ma l’autonomia del comune rurale non potrà esistere senza l’autonomia delle fabbriche, delle scuole, delle città, di tutte le forme della vita sociale. Questo è quello che ho appreso in un anno di vita sotterranea]….[Per tutti, lo Stato avrebbe dovuto fare qualcosa, qualcosa di molto utile, benefico e provvidenziale: e mi avevano guardato con stupore quando io avevo detto che lo Stato, come essi lo intendevano, era invece l’ostacolo fondamentale a che si facesse qualunque cosa]…[Erano, in fondo, tutti degli adoratori, più o meno inconsapevoli, dello Stato; degli idolatri che si ignoravano. Non importa se il loro Stato fosse quello attuale o quello che vagheggiavano nel futuro: nell’uno e nell’altro caso era lo Stato, inteso come qualcosa di trascendente alle persone e alla vita del popolo; tirannico o paternamente provvidente, dittatoriale o democratico].

Levi coglie che rispetto all’idea di Stato occorre andare oltre, occorre dirla differentemente, anche e soprattutto rispetto all’idea trascendentale, spiritualistica, metafisica, già allora dilagante.

La dislettura che abbiamo fatto grazie al suo contributo è per dire che lo Stato è il Sembiante, ovvero questo punto inafferrabile, indifferente, provocatore, o meglio sancisce il suo assolutismo.

L’idea dello Stato, ovvero l’idea che il Sembiante è assoluto, che le vita esige l’assoluto per procedere nell’Originario e non nella rappresentazione, la rappresentazione di Stato.

Nessuna libertà senza l’Assoluto.

I contadini della Lucania manifestavano una viscerale intolleranza verso la rappresentazione dell’Assoluto.

Che Cristo si sia fermato a Eboli, lascia intendere ora appunto, che tutta la vicenda di Cristo è per dire del Sembiante e dell’originarietà dell’Atto, ma Cristo, come personaggio alquanto sembiantico, procede anch’esso dal Sembiante.

Questo Levi non l’ha detto ma l’ha inteso, ha tentato di dirlo, ma l’ha soprattuto vissuto, e questo è essenziale.

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