Closer

 

Alice, come la definisce l’autore della colonna sonora, la figlia del vento.
Di Alice s’innamorano gli altri tre protagonisti del film.

Alice, come la definisce lo scrittore giornalista, è amabile ma soprattutto disarmante.

Arma dal greco Armos, cioè omero.

Omero l’osso a cui si legava l’arma da difesa, lo scudo, e omero l’osso che si prolungava in strumento, in arma atta ad offendere.

Quindi Alice propone di abbandonare il discorso in cui si attacca o ci si difende da qualcosa, quindi Alice per l’interlocutore non è più un simile, un soggetto con cui ci si rapporterebbe.

Alice porta il vento, il vento che spazza via tutte le impalcature, tutte le rappresentazioni dicotomiche soggetto-oggetto, soggetto-soggetto.

Alice è figlia, così autenticamente figlia da scatenare nel dermatologo la ricerca, la necessità di saperne il nome, e nel giornalista la domanda “Perché io? Perché hai scelto me?”.

In qualche modo il discorso combinatorio isterico che cerca di combinare il nome al significante, cioè dare il nome al nome, e il discorso elettivo ossessivo del prescelto.

Alice porta alle corde, provoca l’estremizzarsi di questi discorsi e li abbandona entrambi.

La questione del Figlio annunciata da Cristo perché la combinatoria sia triale: il Figlio ma anche il Padre, il nome, ma anche lo Spirito, il vento, l’Altro, l’Inconscio.

Le cose funzionano per l’apporto del nome.

E se le cose funzionano si scrivono. Impossibile scriverle, così come il vento che giunge e si scrive sull’acqua, sulle vesti, sulla sabbia, e quindi le onde e le pieghe.

La mano intellettuale, mano instrumentale che sancisce il distacco per cui le cose si possono scrivere puntuali e precise, senza necessità di misura e spazializzazione.

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