“Dove due o tre sono riuniti nel mio nome io sarò in mezzo a loro” [Mt.18,20].
Si dimentica sempre che i Padri della Chiesa, oltre che vivere la preghiera sul versante dell’orazione, ed oltre ad avere cura del silenzio, s’incontravano per articolare enigmi che il Sacro Testo proponeva loro. Così come si dimentica che la vera teologia non fornisce risposte, ma suggestioni e provocazioni per articolare e rilanciare la domanda, la questione.
Come intendere frasi che capita di sentire “lo spogliarsi di se stessi, il combattere contro se stessi”? Chi si spoglia di chi?
Entriamo in pieno nella questione Trinitaria per cui l’Io non ha senso senza il Tu e soprattuto senza il Lui.
La tripartizione Freudiana, “Io, SuperIo, Es”, ovvero lo specchio, lo sguardo e la voce.
Quando Gesù dice che è venuto a liberare l’uomo dal peccato, sembrerebbe proprio voler dire dall’illusorio peccato, dal SuperIo che lo incolpa e gli fa venire i sensi di colpa senza nessun motivo.
Ecco due modi per togliersi dal senso di colpa, da questa autocolpevolezza.
Il primo, più diretto, più ossessivo, più rigoroso, punta appunto a togliere pensieri con i quali ci si accusa di essere inutile o fallito se non ci si mette all’opera, e quindi la necessità del programma della giornata, fitto e ben delineato, senza buchi e senza pause.
Il secondo è già colpevole, è già vittima, e per questo alimenta un’altruismo parossistico, ha un obiettivo che è il progetto dei progetti, salvare ed aiutare l’umanità, anche in maniera rivoltosa ribelle rivoluzionaria, se non fosse che ha bisogno sempre di nuove rivoluzioni da appoggiare. Questo discorso, che giunge a dire che nella vita si impara vivendo, che la vita va vissuta fino in fondo, che occorre cambiare e provarle tutte, sembrerebbe comunque più vincente, perché rifiuta qualsiasi pensiero che possa portare a forme di filosofia, di metafisica, di psicologia, senza impastoiarsi nei pensamenti e ripensamenti.
Non fosse che comunque la vita non occorre viverla, ma occorre che la vita si scriva, che nella vita ci sia scrittura, che lo cose giungano a compimento senza che la scrittura di programmi e progetti cessi o finisca. Le cose si scrivono se c’è invenzione, se c’è arte, se c’è scienza. Le cose giungono a compimento quando rilasciano qualità, quando giungono alla cifra alla poesia alla danza.
Entrambe modalità per cercare di togliersi dal mondo della rappresentazione dicotomica, del tempo presente a se stesso.
Il primo è come se cercasse con le osservanze di abbattere un muro, il muro che lo rinchiude, che lo ingabbia, che lo rende soggiogato allo sguardo del SuperIo, così da poter far entrare l’ascolto, così che l’osservanza divenga ubbidienza, l’ascolto che sta innanzi, rivolto a qualcosa che non è mai stato, compreso il passato che gli faceva ombra, un’ombra di appartenenza e predestinazione, così che ci sia accoglienza ed ospitalità per L’Es, per l’Altro, per l’Inconscio, per lo Spirito che consente alla danza di essere, come dice Armando Verdiglione, l’arte del silenzio.
Il secondo è come se, non riuscendo ad abbattere il muro che separa il corpo dalla scena, cambiasse la scena non curandosi del corpo. Richiama il salto di Bidone, provocato dall’allargamento dell’estuario, che crea delle differenze di velocità negli strati del fluidi, che crea degli strati nei fluidi (il salto di Bidone appunto). Punta alla differenza e all’accrescimento per cui non è più uno strato sopra l’altro, un’esperienza dopo l’altra. Punta al due originario in quanto differenza originaria e non differenza dicotomica, oppositiva. Punta alla sessualità.