Agostino, Giustizia o verità?

 

LA PSICANALISI È DIRITTO – presso Associassion Piemonteisa – Ciclo di lezioni promosse da Lunipsi – Torino, 25 febbraio 2012

 

La prima parte delle Confessioni, se pur sempre con questa continua lode e ringraziamento a Dio, è autobiografica, e parla principalmente dell’arrovellamento di Agostino, della sua insoddisfazione rispetto al raggiungimento dell’onore, del denaro e delle donne da sposare, insoddisfazione cresciuta fino alla Conversione, che lui indica all’incirca tra il trentaduesimo e il trentatreesimo anno.

Agostino nasce a Tagaste, nell’odierna Algeria, nel 354.

Le prime riflessioni risalgono alla fanciullezza, dove loquace e ricco di favella, aveva la sensazione di imparare di più, compresa la lingua, vivendo, piuttosto che da dettami di genitori, maestri ed educatori.
Genitori che ardivano lui divenisse grande oratore, lo volevano instradare “nelle arti linguacciute, provveditrici di onori e ricchezze false tra gli uomini”. Lui preferiva invece la “vacuità dei poeti”, anche se trovava ostico Omero, non piacendogli il greco.

Genitori che, sicuramente non ricchi, investirono molto per far studiare il piccolo Agostino, lo mandarono prima a Madaura e poi a Cartagine, per poi richiamarlo a Tagaste quando i soldi finirono, così che il sedicesimo anno si caratterizzò per lui di un ozio quasi assoluto, “ove i rovi delle passioni crebbero oltre il mio capo”.

Anni di dibattimenti quelli che seguirono, nei quali ascoltò solo in parte la successiva volontà paterna, che notando a sedici anni la sua virilità in un bagno turco, gli esternò esplicitamente che era giunto il tempo di maritarsi e fare figli, così da salvaguardarsi dalle scorribande erotiche.

In quel periodo “Che altro mi dilettava allora, se non amare e sentirmi amato?…non si distingueva più l’azzurro dell’affetto dalla foschia della libidine, l’uno e l’altra ribollivano confusamente nel mio intimo e la fragile età era trascinata nel dirupo delle passioni…moltiplicando gli sterili semi delle sofferenze, altero della mia abiezione e insoddisfatto della mia spossatezza

Agostino ebbe molte donne, giungendo all’età di 19 anni ad avere anche un figlio, Adeodato, ma una famiglia vera e propria non l’ebbe mai, perché la madre di Adeodato, che fu con Agostino in una relazione di concubinato per quindici anni, tornò in Africa, lasciandoli entrambi a Milano; di lei Agostino disse: “La vissi come amante, alla quale fui però fedele come fosse una moglie”.

Rimandò invece la volontà materna, che sognava per lui il totale abbraccio in Cristo, e tra i diciannove ed i ventotto anni caldeggiò ingentemente la causa manichea, favorita dall’ascoltare i discorsi pubblici di Fausto di Milevi.

Il suo avvicinamento definitivo al Cattolicesimo avvenne a trentanni, quando giunse a Milano ed incontrò Ambrogio, colui che diverrà Sant’Ambrogio. (Anche la madre Monica, la futura Santa Monica, quando lo raggiunse a Milano, divenne devota servente di Ambrogio).
La soavità della sua parola m’incantava. Era più dotta, ma meno gioviale e carezzevole di quella di Fausto in quanto alla forma; quanto alla sostanza però, nessun paragone era possibile: l’uno si sviava nei tranelli manichei, l’altro mostrava la salvezza nel modo più salutare……ossia la fede cattolica non mi appariva vinta, ma non si mostrava ancora vincitrice….se solo avessi potuto pensare a una sostanza spirituale, tutte le loro macchinose costruzioni si sarebbero istantaneamente sfasciate e dileguate…..tuttavia da allora incominciai a preferire la dottrina cattolica, anche perché la trovavo più equilibrata e assolutamente sincera nel prescrivere una fede senza dimostrazioni”.

Prima, tra i suoi incontri di svolta va segnalato l’incontro con Cicerone, e precisamente con un suo testo oggi perduto chiamato Hortensius. Testo incontrato nei corsi di eloquenza che lo distolse dall’intendere e dal ricercare l’eloquenza “per uno scopo deplorevole e frivolo quale quello di soddisfare la vanità umana”. Con quella lettura si accendeva in Agostino il fuoco della filosofia come amore di Sapienza, e lui intese questo il suo primo avvicinamento a Dio e quindi al Cattolicesimo, malgrado in quel periodo le Sacre Scritture gli fossero ostiche “Erano un oggetto oscuro ai superbi e non meno velato ai fanciulli….quell’opera è fatta per crescere con i piccoli; ma io disdegnavo a farmi piccolo e per essere gonfio di boria mi credevo grande”.

[Occorre la scrittura, occorrono dispositivi, per poter accogliere l’enigma e non sotteriologizzarlo in mistero]

Il passaggio dal manicheismo alla condizione di catecumeno fu anche favorito dalla lettura dei neoplatonici, dove riscontra l’importanza di dubitare di tutto.

Il suo filosofo preferito lo indicò però in Epicuro, del quale non condivideva solamente la mortalità dell’anima.

Va anche ricordato l’incontro con il proconsole Vindiciano, che lo premiò per la vittoria in un concorso di poesia, e da lì cominciò una serie di frequentazioni con lui.

Vindiciano, dotto medico, lo consigliò per sua esperienza ad abbandonare gli interessi verso l’astrologia “Mi consigliò con amorevolezza paterna di buttarli e non impiegare vanamente in futilità l’attenzione e la fatica necessaria per le cose utili”, ma soprattutto lo provocò ad esplicitare una domanda che verrà molto articolata nella seconda parte delle Confessioni, la questione del tempo. Nello specifico a Vindiciano Agostino chiese allora, posta l’astrologia come nefandezza, il perché le predizioni talvolta si realizzassero. Questa lo straordinario rilancio di Vindiciano: “Consultando a casaccio le pagine di un qualsiasi poeta, che ben altro canta e pensa, spesso ne esce un verso, mirabilmente consono con il fatto proprio; non è dunque strano, se per un misterioso impulso dall’alto l’anima umana, pur ignara di quanto avviene nel suo interno, non per abilità, ma per accidente, faccia echeggiare alcune parole, che si armonizzano con la situazione e le faccende dell’interrogante”.

Se scrivendo si giunge alla poesia come accidente, all’armonia delle cose integrate, e all’armonia, alla tranquillità anche di chi scrive, allora l’armonia riguarda anche il futuro senza dover giungere ad una scaramantica logica degli astri; ma soprattutto la poesia, che anche etimologicamente è nel fare, un fare assolutamente vichiano, informa di un Altro tempo, che spazza via la cronologia passato – presente – futuro, non solo teoricamente, non solo con il ragionamento, con il sillogismo, ma in atto, nel gerundio, assolutamente in atto, facendo

Come frequentazioni importanti, anche a detta di Agostino, non vanno dimenticati gli amici.

Il primo fu un amico d’infanzia, di cui non fa nome nelle Confessioni, che lui condusse sulla strada del manicheismo; un amico che morì molto giovane, e che nei travagli della malattia, trovò il tempo di dirgli che non avrebbe voluto più essere suo amico se non l’avesse fatta finita con il manicheismo. Alla morte di quest’amico ebbe una crisi, fu preso dallo sconforto e per dimenticare si trasferì a Cartagine.

Poi ci fu Alipio, che era stato suo studente a Cartagine e che rincontrò a Roma. Alipio aveva notevole rettitudine sul lavoro, ma mostrava caducità rispetto agli spettacoli circensi.

E Poi Nebridio, anch’egli amico d’infanzia che appositamente lo raggiunse a Milano.
Con loro, ai tempi di Cartagine, pensò addirittura a mettere su una comune, per continuare a discorrere delle domande e questioni che li interrogavano; impresa non andata in porto perché non sapevano come inserirvi le rispettive donne ed amanti.

Con gli amici s’intratteneva in conversazioni e riflessioni come questa: “Tutti i nostri sforzi, quali quelli che proprio allora sostenevo traendo sotto il pungolo dell’ambizione il fardello della mia insoddisfazione e ingrossandolo per via, a che altro miravo, se non al traguardo di una gioia sicura, ove quel povero mendico ci aveva già preceduti e noi, forse, non saremmo mai arrivati? Il risultato che egli aveva ottenuto con bei pochi e accattati soldarelli, ossia il godimento di una felicità temporale, io inseguivo attraverso anfratti e tortuosità penosissime. Egli non possedeva, evidentemente, la vera gioia; ma anch’io con le mie ambizioni ne cercavo una più fallace ancora, e ad ogni modo egli era allegro, io angosciato, egli sicuro, io ansioso. Richiesto di dire se preferivo l’esultanza o il timore, avrei risposto: “L’esultanza”, ma poi se mi fosse stato chiesto: “Preferiresti essere come costui, o come sei tu ora?”, avrei scelto di essere com’ero, stremato d’affanni e timori. Quale perversione! Infatti, secondo ragione, non avrei dovuto anteporre al mendico la mia più vasta cultura se non ne ricavavo motivi di gioia, ma la impiegavo per piacere agli uomini, non ammaestrandoli, ma solo dilettandoli”.

L’avvicinamento alla Conversione passa anche dagli incontri con Simpliciano, Arcivescovo di Milano successore di Ambrogio, che gli portò l’esempio della conversione pubblica di Vittorino, un tempo eloquente difensivista di attività sacrileghe. Vittorino viveva ai tempi dell’editto dell’imperatore Giuliano, editto che proibiva ai cristiani di insegnare letteratura onoraria, e lui una volta convertitosi “Aveva preferito abbandonare la scuola delle ciance anziché la tua Parola, che rende eloquente la lingua di chi non sa parlare”.

[L’eloquenza è dell’Altra lingua, la lingua di Babele e della Pentecoste. Anche un muto, anche un analfabeta, anche un infante sa parlare, può essere eloquente…anzi, forse è molto più eloquente di molto eruditi]

Ponticiano, membro della corte imperiale, anch’egli africano d’origine, gli raccontò le vicende del monaco egiziano Antonio, i cui diari venuti per caso sotto gli occhi di due agenti amministrativi, ne stravolsero la loro vita, tanto che si convertirono e dedicarono la loro vita a Dio, coinvolgendo in quel voto anche le mogli. Antonio che si era convertito dopo la lettura del passo del Vangelo di Matteo: Va’, vendi tutte le tue cose, dalle ai poveri e avrai un tesoro nei cieli, poi vieni e seguimi.

Importante fu anche la madre Monica, alla quale Agostino dedica gli ultimi paragrafi della prima parte delle Confessioni, come fossero in memoria di lei, morta dieci anni prima l’inizio della scrittura delle stesse. Racconta delle sue debolezze giovanili per il vino, della sua pazienza a sostenere il collerico padre Patrizio, al suo sapergli non rispondere nei momenti critici; racconta della sua capacità di instillare pace tra litiganti, non riportando mai ad uno le calunnie sentite dall’altro.

Rispetto a trovare l’occasione per dedicarsi totalmente a Dio così Agostino: “A tanto ispiravo io pure, impacciato non dai ferri della volontà altrui, ma dalla ferrea volontà mia….sì, dalla volontà perversa si genera la passione, e l’ubbidienza alla passione genera l’abitudine, e l’acquiescenza all’abitudine genera la necessità. Con questa sorta di anelli collegati tra loro, per cui ho parlato di catena, mi teneva avvinto una dura schiavitù….questa legge del peccato è la forza dell’abitudine, che trascina e trattiene in una soggezione meritata, poiché vi cade di sua volontà…..la volontà è piuttosto una malattia dello spirito, sollevato dalla verità ma non raddrizzato del tutto perché accasciato dal peso dell’abitudine”.

[La necessità è soggettiva, l’occorrenza no. La necessità, il non poterne fare a meno, il non riuscire a togliersi qualcosa di dosso, le crisi di astinenza, dicono che a parlare è un soggetto, un soggetto abituato ad essere soggetto alla volontà]

Ancora Agostino ancor più prossimo alla Conversione: “E mentre feci molti gesti, per i quali volere non equivaleva a potere, non facevo il gesto che mi attraeva d’un desiderio incomparabilmente più vivo e che all’istante, appena voluto, avrei potuto, perché all’istante, appena voluto, l’avrei certo voluto. Lì possibilità e volontà si equivalevano, il solo volere era già fare”.

[L’enigma del tempo, l’istante, l’infinito, il gerundio. La psicanalisi come dispositivo, perché le cose si dispongano secondo l’occorrenza e non s’impongano né vengano imposte; dispositivo perché l’istanza sia di conclusione, e simultaneamente di rilancio, di danza, e soprattuto non di attesa]

E quindi Agostino con Alipio nel giardino, come in un giardino dei Getzemani, tesi, prossimi alla Conversione, così disperati da arrivare come l’Egiziano Antonio ad aprire a caso una pagina della Bibbia. La apre Agostino ed è San Paolo che scrive ai Romani: “Non nelle crapule e nelle ebbrezze, non negli amplessi e nelle impudicizie, non nelle contese e nelle invidie; rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo, e non assecondate la carne nelle sue concupiscenze”.

Agostino si fermò, ma Alipio, come uno straordinario analista, riaprì il libro, ritrovò il passo e gli fece notare il passo successivo: “E accogliete chi è debole nella fede!”.

[Lì per entrambi la svolta. Qua per noi, nella favola narrata da Agostino, l’occasione per dire come sia impossibile dirsi analista senza cogliere che occorre in ciascuna conversazione, in ciascun incontro, puntare alla fede]

Ma in Agostino, dal suo testo, dalla sua esperienza, dalle sue articolazioni, dalle sue elaborazioni, troviamo altri straordinari parallelismi per continuare a dire di quest’esperienza chiamata psicanalisi.

Non è che la fede sia un avulso stadio conclusivo scevro da condizioni, collegamenti e concomitanze.

E’ la fede non è neanche la pace dei sensi, dolore ed emozione diventano compagni di viaggio.

L’etimo di fede ci conduce al latino fides ed al greco peith, cioè avvincere e persuadere.

Avrebbe potuto Agostino, se la fede non si fosse incarnata in lui, essere acclamato prete e poi vescovo straordinariamente fuori da ogni dettame ritualistico o democratica e razionale votazione?

Secondo il racconto del suo più stretto collaboratore Possidio, Agostino scantonava qualsiasi vicenda burocratica, tanto era preso dallo scrivere, dal fare omelie in tutto il nord Africa (ne fece circa ottomila in trentanove anni di carriera ecclesiastica), dall’affrontare pubblici dibattiti, dall’istituire Concili per tentare di convertire o comunque controllare i Donatisti, ma soprattutto da porsi come interlocutore per chi fosse in difficoltà con la fede, quindi con la vita.
Ed anche quando arrivarono i Vandali distruttori, la sua maggior premura rispetto alla fuga era che qualcuno rimanesse come interlocutore per la gente della comunità che fosse sopravvissuta agli invasori.

Può esserci fede senza umiltà?

Ma quanta umiltà c’è in Agostino quando nelle sue elaborazioni riesce ad essere eccelso filosofo, tanto da andare oltre la filosofia, così che oggi dire che Agostino fosse un filosofo risulta, più che inesatto, riduttivo?

Ma quanta umiltà c’è quando si chiede come mai la gente cercasse tanto la spettacolare meraviglia visiva, e non s’interrogasse su un elemento come la memoria, che consentiva di ricordare e meravigliarsi senza avere visto?
Può esserci fede senza speranza e senza carità? San Paolo dice che delle tre virtù la carità è quella più importante.

E Agostino riprende San Paolo mentre si chiede il perché stesse scrivendo le Confessioni: “Perché la guarigione di tutte le debolezze non verrà certo dalla gente curiosa della vita altrui, ma infingarda nel correggere la propria. La carità può credere a tutto, ma si compiace solo della Verità. Prove della veridicità della mia confessione non posso fornire loro, ma quelli cui la carità apre le orecchie alla mia voce mi credono”.

La Verità di Agostino non è quella degli umani: “Così si riempono le acque del mare, mosse soltanto dalla varietà delle interpretazioni; e così la terra si riempe di germi degli uomini, trasparendo la sua aridità alla brama del sapere, dominata dalla ragione”.

Come a dire che senza carità nessun Ascolto, ma l’ascolto non è qualità umana, non è qualità soggettuale. La qualificazione non attiene al soggetto.

Nelle ultime pagine delle Confessioni Agostino dice spesso che lui continua ad affidarsi a Dio attraverso le Sacre Scritture perché in essa c’è la Verità in quanto enigma.
Straordinariamente freudiano in questo, l’importanza del sogno è nella enigmaticità.

La risorsa degli umani è che l’enigma rimanga tale.
Così sebbene i volatili si moltiplichino sulla terra, è però dalle acque che traggono origine”…come intenderla? “Perché l’aria su cui si sostengono è nient’altro che acqua evaporata”…straordinario, puro rebus.

E così la giustizia potrà mica mai essere la giusta interpretazione, la giusta versione dei fatti per stabilire chi ha ragione, chi è il colpevole, qual’è la pena che deve pagare?
Si vuol dire che giudica delle cose ove ha pure potere di correzione”…un sintomo, una ripetizione, una caratteristica potrà mica cambiare se non presa in una giusta scrittura.

In Agostino, in psicanalisi, la questione è quella della scrittura, della scrittura non umana, della scrittura giusta, della poesia, del compimento, della cifra.

Gli ebrei lo hanno colto molto bene, non c’è il comportamento giusto o sbagliato secondo la legge già scritta, il giusto è colui che ha colto ciò che era giusto fare, nell’occorrenza, nell’istante.

E la Giustizia, l’Ascolto, la Fede non sono virtù soggettive, individuali, ma procedono dalla relazione.

Agostino riferisce tutto a Dio, noi parliamo della complessità della Parola Originaria, in cui anche l’Amore non prevede un destinatario e un destinatore.

La psicanalisi non è un gioco di ruoli.

La fede dell’analista è forte perché sempre debole, ha bisogno del dispositivo per alimentarsi.

Altrimenti come dice Agostino riprendendo San Paolo: “Proclamandosi saggi si resero stolti”.

Da questo preambolo emerge che la psicanalisi è diritto quando è dispositivo, perché le cose si scrivano e si facciano giustamente, sentendo eticamente ciò che occorre fare, ed emerge come non possa difendere ella nessuno e tanto meno essere difesa, perché si fonda sulla provocazione rispetto a soggettuali rappresentazioni giuridiche e sull’imperituro rilancio dell’Enigma.

Il testo e la favola di Agostino come manifesto, a manifestare il rilancio di un dispositivo per integrare nel viaggio culturale, artistico, imprenditoriale, chi è debole nella fede.

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