Fotografare come stanno le cose

 

Recentemente l’occasione di ascoltare la presentazione programmatica del Corpo Forestale dello Stato rispetto all’implementazione informatica. Nello specifico andare verso l’eliminazione del cartaceo, che risponderebbe all’intento di salvaguardia degli alberi e quindi del pianeta.

Ma l’intento principalmente proposto e spiegato è quello di creare banche dati sempre più complete, la cui elaborazione, il cui intreccio, consentirebbero statistiche e analisi a supporto di decisioni d’intervento.

Interessante ciò che ha detto il relatore per giustificare la considerevole mole di lavoro dell’inserimento dati da parte degli operatori, cioè che si sarebbero così potute fornire in tempo reale, al superiore che ne facesse richiesta, “Fotografie di come stanno le cose”.

C’è similitudine rispetto a cosa accade nel famoso social-network Facebook, dove in tempo reale si pubblicano fotografie dei posti in cui ci si trova.

In un caso il referente sembra quindi il padre padrone, comandante, e dall’altra la madre, la mamma, la madre patria in particolare se ci si trova all’estero, ricordando scene televisive dove si vedono persone inquadrate dalla telecamera che si sbracciano dicendo “Ciao mamma”.

Nel primo caso sembra essere la sistematizzazione di un’ossessione, la ricorrente fantasia di “dire come stanno le cose”, in riferimento al padre verso il quale magari non si è d’accordo. Vicenda che richiama Italo Svevo ne La Coscienza di Zeno, quando Zeno Cosini, sul letto di morte del padre appena spirato, si rammarica di non essere riuscito a dire le cose che da sempre aveva tentato di dirgli.

Padre ti ho risposto, ho fatto il compito, ti ho mandato la fotografia di come stanno le cose.

Ma allora come intendere la disperazione alla quale può accadere di giungere, che richiama l’evangelico urlo “Padre perché mi hai abbandonato?” [Marco 15, 33-37].

Nell’altro caso: madre mi riconosci? Sono sempre io, sono felice, sono in salute. Madre mi riconosci? Sei sicura di essere mia madre? Più mi allontano e più mi sembra di non appartenerti, non mi riconosco, sono felice allontanandomi da casa, dalla famiglia, dagli amici, “Chi è mia madre? chi sono i miei fratelli?” [Matteo 12, 47-50].

La questione intellettuale, la vita. Come giungere a non abbandonarsi a se stessi, a non lasciarsi andare, a non rinunciare, a non considerare l’ostacolo come avversità insormontabile, a non socializzare per esorcizzare la paura dell’abbandono.

Come essere nel fare, nel gerundio della vita senza rappresentazioni di se, del mondo, del tempo e i suoi finalismi, cioè previsioni sul futuro dedotte da analisi statistiche sul passato, o intendere la vita come essere presenti a se stessi per preparare un “al di là”, così da passare la vita fuori dal gerundio, preparando un “al di là” come garanzia per continuare a non essere nel gerundio, ad esorcizzarlo come spauracchio.

La tecnologia non può portare all’istante come particella elementare del tempo, perché l’istante attiene all’incalzare, alla pressione che non prevede depressione come rappresentazione della pressione, all’imminente, all’avvenire che s’incontra nel fare, nel gerundio della vita.

Le cose non stanno in nessun luogo e in nessun tempo che non sia il gerundio della vita.
Come si scrivono le cose. Ecco lo stile, la singolarità.

Le cose si scrivono, si dipingono, si fotografano, perché attengono al fare, al photos, alla scrittura della luce, una luce che proviene dalla penombra di cui parla Leonardo.

L’intelligenza, il fosforo, la fosforescenza, il lusso, la luce che si scrive.

Cristo sulla croce giunge alla disperazione ed urla “Padre perché mi hai abbandonato?”, ed ecco che nel pomeriggio cala l’oscurità.

A ciascuno il compito di dimorare nella penombra, nell’umiltà, nel lavoro, nel non esitare in riserve mentali, in mentalismi disperanti che non giungono alla disperazione, in competizioni di mentalità differenti, le mentalità di padre e di figlio.

A ciascuno errare come figlio che non teme l’abbandono né reclama il pubblico riconoscimento, le luci della ribalta.

Nella penombra l’incontro con la modernità. Nella penombra l’ostacolo e l’interlocutore non sono avversi, non mentono, non truffano e non possono fare ombra, le cose s’incontrano tra l’occorrenza e la provvidenza, si qualificano, si riconoscono, si sentono in quanto qualitative.

 

27 Ottobre 2012

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