Il sentimento, l’emozione, il dolore

 

Sanus e Salvus anche dal greco Olos, integro, intero.

Cristo, il Salvatore per eccellenza, ha portato la questione dell’enigmatica Trinità, ovvero la questione del Figlio non genealogico.

Il Figlio Cristo è stato ucciso.

Il sentimento e il nutrire un sentimento, come se potessimo allevarlo e nutrirlo, poi sacrificarlo ed ucciderlo, e quindi ricordarlo commuovendosi.

Godimento sado masochistico, commozione celebrale, si è battuta la testa e si vuole continuare a stare intontiti.

Le dinamiche intorno al sentimento e al risentimento sono le stesse delle coppie che allevano ed educano il figlio per salvare la relazione, cioè il figlio non è inteso come straniante, come apertura, perché la relazione non sia più a due e quindi asfissiante e insostenibile, ma è qualcosa che dovrebbe salvare e perpetuare la relazione sempre più a due, sempre più stretta, sempre più affettata ed affettuosa, sempre con nuove malattie da condividere, di cui occuparsi ed essere affetti.

Differente l’emozione, perché qualcosa si muove, sempre a sproposito, sorprende, è già sulla strada della gioia.

Allora Cristo, il suo atto, Cristo in quanto Parola in atto pone la domanda: “Come essere erranti viandanti e giungere ad una vita sana, integra, semplice, tra l’occorrenza e la provvidenza, senza miracoli mirabolanti e spettacolari, senza cadere nel vagabondaggio e nel semplicismo?”

Cristo aveva cura del silenzio e parlava in modo enigmatico. Da qui possiamo partire, dal leggere libri come il Vangelo, libri, film che pongono domande più che fornirci risposte e commozioni sicure.

Se la domanda è lasciata aperta, nella giornata che ci è innanzi incontreremo l’occasione per poterla riprendere, rilanciare e proseguire. E’ la questione ebraica della Torah e del Talmud, ovvero il libro occorre che continui a scriversi nelle vite di ciascuno. Ciascuno occorre che si trovi opera d’arte con il suo nome come pseudonimo di “autore”, senza possibilità di demandamento o di fruizione.

La questione del dolore e la questione del tutto.

In giurisprudenza si usa il termine dolo per indicare un reato per il quale il soggetto sarebbe interamente implicato, cioè il crimine sarebbe stato volontariamente premeditato. Se c’è dolo il reato è più grave rispetto a quello dove c’è solo colpa, ovvero effettuato inavvertitamente o sbadatamente.

Ma si è già in un discorso fondato sulla spazializzazione, dove le cose iniziano e finiscono, dove c’è una causa ed un effetto, dove trovare il colpevole è come dire trovare la causa, il punto di partenza. Vi sono soggetti che poggiano i piedi sulla terra, che hanno a che fare con la natura, con la realtà esterna.

Soggetti soggetti al discorso sadico inquisitorio, al senso di colpa per l’infanticidio, per non riuscire ad accogliere il Figlio, per non riuscire a danzare (Friedrich Nietzsche nello Zarathustra: “Non riuscirei ad immaginare un Dio non in grado di danzare”).

E così dall’infanticidio al matricidio, alimentando il discorso psicoterapeutico, ricercando la matrice come causa delle azioni che il soggetto si ritrova a fare.

Nel Mito greco Oreste viene lavato nel mare perché ha commesso il matricidio.

Il dolore, la madre, il tutto.

Il Vangelo di Giovanni si apre con la famosa frase In principio era il Verbo, in altre lingue In principio era l’Azione. Già si profila questo Tutto dal quale non si può uscire, e quindi non può essere originario un sistema ontologico basato sulla morte come finitudine del tempo.

In molte Civiltà ormai scomparse si era formulata l’idea di Cosmo come qualcosa dal quale non è possibile uscire, spesso rappresentato da simboli come la svastica, la spirale. Cosa può suggerire una spirale se non che le cose si piegano senza un inizio e una fine?

Le cose e il tempo non finiscono, ma assumono sempre un’altra piega, un altro ritmo.

La cosmesi è originaria, la finzione è originaria, la maschera è originaria. Originaria perché non vi è nulla sotto la maschera.

Il lutto e il dolore, le cose non finiscono e non muoiono. Cessa lo scudo del rapporto sentimentale ed ecco il dolore come lavoro del desiderio che si rimette in moto. Faticoso e doloroso perché non esercitato.

Il dolore come occasione.

Il lutto e l’elaborazione, ovvero l’occasione per esercitarsi nell’elaborazione, nel racconto, nell’articolazione delle questioni, perché questo procedere diventi dinamica di vita, per non ricorrere a stratagemmi nell’intento di sedare il dolore, a commozioni per non rinunciare al godimentoso guado del sentimento.

In questo procedere errante che accoglie il Figlio, che non si rappresenta l’ostacolo ma lo incontra come vincolo progettuale, la madre, la materialità impalpabile è deittico, è traccia di direzione per il progetto che si scrive facendo. Non è obiettivo, non è madre genealogica obiettiva che sa come starebbero le cose, che mi conosce, che non tradisce, alla quale essere fedele.

Certo non è facile, occorrono interlocutori che sappiano intendere l’ascolto come lavoro di associazione non amicale, non materno, non psicologico, perché ci sia conversazione e non chiacchiera, non confidenza.

Occorrono dispositivi perché da questo Cosmo possano trarsi le risorse, perché le cose non s’impongano ma la soddisfazione e la riuscita giungano disponendosi tra l’Occorrenza e la Provvidenza, quando il Narcisismo non più soggettuale legittimi l’adozione di qualcosa d’imprendibile, il Figlio, che però non esce dalla Parola, dal Fare Originario, dal gerundio della vita, che consente ci sia integrità.

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