Il pasto nudo

 

Il pasto nudo (Naked Lunch) è il titolo suggerito da Jack Kerouac a William Burroughs, autore del libro la cui lettura ha ispirato David Cronemberg, regista del film che prende titolo dal libro.
Il pasto nudo, il pasto, il cibo, l’alimento identificabile e sintetizzabile, immortalabilmente raggelato nel momento di infilare la forchetta in bocca.
Su questa scia il protagonista, Bill Lee, deratizzatore, giunge a cibarsi dello stesso cibo che da agli scarafaggi per ucciderli, o addirittura alla carne nera, la sintesi della carne di enormi scarafaggi africani.
Lo scarafaggio, emblema dell’onnivoro, del cibo dissociato dal pasto come dispositivo di racconto, come cifra dell’arte della cucina.
E quindi la nudità, spesso accompagnata da erotomania, del dirsi liberi in quanto nudi, liberi dal pudore, ostentando coraggio nel denudarsi.
Mettersi a nudo, scoprirsi, dire la verità, spogliarsi di un segreto.

Il protagonista è anche scrittore. Il pasto nudo è un film sulla scrittura.
La libertà non è di scrivere ciò che si vuole, rispetto alla legge sociale, infrangendo tutti i dettami sociali, dicendo le cose come stanno, la realtà nuda e cruda delle cose.

La scrittura e la forzatura.
Rende bene l’idea del film che per scrivere occorre relazionarsi con la macchina da scrivere, perché non padroneggiabile dallo scrittore padrone. Questa la difficoltà occorrente per giungere alla scrittura, per giungere alla sessualità, per giungere all’Interzona del film. Altrimenti l’omosessualità che sempre circonda il protagonista, come a dire che se non si giunge alla scrittura, all’Altra scrittura, alla sessualità, non si può che essere nell’omosessualità legata alla presunta o meno differenza dei sessi.
La sessualità che c’è in uno scritto, ciò che tentano di suscitare i due annoiati che si mettono a fare sesso, facendosi leggere un libro dall’amico, posizionatosi proprio a fianco al divano dove stanno “consumando”.

La scrittura e il non sapere scrivere, la scrittura e l’impossibilità di dirsi scrittore.
Bellissima la scena finale, con il protagonista fermato dalla polizia che gli chiede di dimostrare di essere uno scrittore per poter passare il posto di blocco. E quindi lui, che in quel periodo stava scrivendo una versione del Guglielmo Tell, la inscena, girandosi verso la moglie posta sul sedile posteriore che coglie il suo intento e già si pone un bicchiere sulla testa. La versione è inedita, perché lui, come già accaduto precedentemente nel film, prende la mira e spara, colpendo la fronte della moglie invece che il bicchiere.
La questione è quella della scrittura e dell’analisi come dispositivo di scrittura. Psicanalisi citata anche nel film, la psicoterapia comportamentista, cognitivista, ovvero qualcosa di noioso che inizia ad indagare sul motivo del senso di colpa.
Ma l’analisi è essenzialmente dispositivo di scrittura, provocante alla scrittura come preghiera, come invocazione perché qualcosa si scriva, perché nella vita si possa ospitare l’Altra mano, si possano incontrare la poesia e la scienza, si possano cogliere la provvidenza e la profezia sulla strada della fede.
Qualcosa di quello che narro e faccio sta scrivendo, sta tracciando, è in direzione dei prossimi incontri, essendo assolutamente in atto è già nell’avvenire.

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