Io ti salverò

 

Sigmund Freud si mostrò sempre perplesso, se non contrario, a collaborare alla realizzazione di un film sulla psicoanalisi, perché diceva che è impossibile rappresentare cosa accade durante una conversazione.
Io ti salverò venne prodotto nel 1945, sei anni dopo la morte di Freud, con le teorie freudiane fresche, con molta persone che leggevano l’opera dell’intellettuale viennese.
Eppure, forse proprio perché era troppo presto, non è stato possibile non cadere nel semplicistico.
Tutto molto facile nel film, addirittura far virare un discorso tendenzialmente psicotico forzando ricordi ed interpretazioni.
Anche ad Hitckock questa tematica venne quasi imposta dal produttore Selznick, che fece andare sul set anche una psicanalista come consulente.
Hitckock però colse come la questione essenziale della psicoanalisi fosse che si interessava ai sogni, e pretese che parte degli arrangiamenti scenografici fossero affidati a Salvador Dalì, conosciuto ed apprezzato anche da Freud.
Ed Hitckock riuscì anche a trattare una delle sue paure fondamentali, tematica anche kafkiana, quella di venir incolpato ingiustamente, variante del famigerato senso di colpa.

La psicoanalisi, nome coniato da Sigmund Freud per dire di questo dispositivo, una conversazione tra due persone, che fonda la differenza sul pagamento della seduta, sull’appuntamento ritualizzato e sulla pausazione tra una seduta e l’altra.
La psicoanalisi funziona se punta e se riesce a giocare uno scherzo, se in atto riesce a dare scacco, se riesce ad infrangere la fantasmatica occidentale che l’uomo sia un essere parlante, ancor più dotato di linguaggio, questo sistema di comunicazione complesso che solo lui avrebbe innato o imparato.
Infrangere questo muro può mettere sulla difensiva, ed ecco i vari arroccamenti difensivisti, comportamentisti e cognitivisti che vogliono rendere scientifica la psicologia, la psicoanalisi, ovvero vogliono espungere l’Altro tempo, cioè il Tempo, il tempo dell’invenzione e della trovata, l’unico tempo per cui possiamo parlare di arte e di scienza, cioè il procedere per abduzione, errando, inciampando, sempre a sproposito.
Il comportamentismo è facile, come dice nel film il guardiano dell’albergo, “Basta essere un poco psicologi”.

Il sintomo, nella sua incombenza, è solamente quell’alterità che non riesce a cifrarsi, come diceva Freud a sublimarsi, anche se è sulla strada rispetto all’anestesia del discorso, del luogo comune che prevede il benessere come condizione naturale, che al massimo prevede sintomatologie curabili con la pastiglia, con l’analgesico.
Le conversioni isteriche seduta stante ricordano molto le ammissioni delle streghe, cioè come a dire: “Guarda, piuttosto vado al rogo, ma non sopporto più il tuo procedere indagatorio e materno, sì ho copulato con il demonio!”, e quindi: “Il sintomatico mi passa perché abbiamo trovato il trauma, sei contento? Ho imparato il giochino delle interpretazioni”, oppure di fronte ad una interpretazione di primo acchito azzeccata: “Non l’accetto, mi faccio venire un attacco isterico, me ne vado sbattendo la porta”.
A questo punto si potrebbe anche ipotizzare: “Ma era Freud che faceva analisi alle isteriche o era la loro assoluta alterità a provocare Freud all’astrazione teorica e alla scrittura?”

L’indagare ha a che fare con l’indizio e quindi con l’indire, dovrebbe intendere il dire, l’annunciare, il pubblicare. Invece le cose fanno segno, significano, hanno un significato, anche il corpo ha un linguaggio, quando invece il linguaggio procede dal corpo, dall’inconscia e inedita combinazione tra corpo e scena. Un linguaggio non è un sistema di comunicazione intersoggettivo, ma uno stile di combinazione tra corpo e scena, che si combinano e non si fondono.
Quello che si scrive, che si stilizza è dunque questo limite, che fa intendere agli umani quanto siano limitati, ma quanto possono volare se di fronte a loro si spalanca l’infinito.

L’indagine e l’investigazione, cioè cercare, seguire l’orma, la traccia, la vestigium.
La traccia è quella della verità, non attiene alla ricerca ma alla trovata, e il piede è qualcosa che attiene all’Altra metrica, all’aritmetica della vita, all’Altro ritmo.

L’uomo certo impara a parlare, lascia ipotizzare di accedere al linguaggio, ma se vuole essere sulla strada della verità occorre sia parlato.
Quindi l’efficacia degli umani, come qualcosa di estetico, che si sente, non può andare senza analfabetismo, si fonda sull’analfabetismo e sull’infanzia come impossibilità a parlare.
L’afasia degli umani è perché evocano quest’analfabetismo a cui non riescono ad accedere, perché sanno troppo parlare, hanno troppa padronanza, sono anestetizzati. Oggi una variante dell’afasia è il Parkinson, il balbettio, la lallazione lacaniana che s’incarna.

C’è un rito, c’è una ripetizione, c’è un appuntamento che occorre fallisca, cioè che le cose non si possono ripetere perché c’è sempre altro da dire, c’è sempre un’altra possibilità, che la seduta non sia un colloquio a due ma una conversazione a tre, che ci sia sempre l’Altro a fare il verso (un verso di accezione poetica), per non ristagnare nel rifugio sillogistico, perché si possa accedere al racconto nello stesso tempo singolare e triale.
Altrimenti la cronaca, la trasmissione sterile dei fatti da un soggetto ai fatti ad un soggetto alla cronaca dei fatti, che li deve sorbire, ascoltare, analizzare, soluzionare, e per farlo bene deve farlo pure empaticamente.

C’è un pagamento che non è nell’ottica della compravendita di un sapere acquisito, del dare per avere, ma è per disfarsi di qualcosa di totemico, del medium universale che permetterebbe agli umani d’intendersi. Una scommessa sul malinteso per giungere all’ironia come modo dell’apertura.
Il soggetto non può fare ironia, l’ironia è dell’Altro. L’Altro assolutamente irrappresentabile ma che non è Dio, che, parafrasando Einstein, non gioca a dadi con il mondo, ma invece ride.

Il sogno e l’indagine del sogno è stata importantissima per Freud, che riteneva L’Interpretazione dei sogni lo scritto che avrebbe avuto più seguito nell’avvenire.
Il sogno ed in particolare la questione del tempo enigmatico, non misurabile, tramite la profezia anche non linearmente ordinabile in passato – presente – futuro.
Il sogno non può essere un compartimento stagno rispetto alla veglia, e quindi il dispositivo dell’analisi occorre porti al racconto che si distingue dalla cronaca perché, come nel sogno, non vi è qualcuno che racconta, si è nel sogno, si è al lavoro, si procede e quindi si racconta, e così poi nella vita, nel fare, nel gerundio.
Racconto che si distingue dalla cronaca perché non si citano, non si ricordano i fatti, ma si dimentica raccontando.
Nessuna apertura senza dimenticanza.
La fertilità della memoria, che oggi l’Alzhaimer dice mancare assai, non si basa sulla fruibilità del magazzino dei ricordi, ma sulla dimenticanza, su questa rimozione come attributo del racconto e non di un soggetto che abusa di rimozione passando da una cosa all’altra pensando di arrivare al culmine dell’esperienza, oppure che non rimuove perché vuole avere tutto sotto controllo. A proposito di questa tematica, nel film in merito al protagonista, “Dimentica per poter conservare la ragione”, o come riflette il protagonista stesso che si chiede: “Come è possibile che perdo la memoria e continuo a ragionare normalmente?”.

Fondamentale dunque la pausazione scansionale tra una conversazione e l’altra, non l’indigestione di analisi come fosse un soggetto da curare rendendolo esperto, infarcendolo di nozioni, di manualistica comportamentista, come la dottoressa nel film, che viene così descritta: “E’ come abbracciare un libro di testo, è senza amore, è senza vita”.
La cura, il cuore, la pulsazione, il tempo. La cura è di quest’Altro tempo, cioè il tempo che non è Kronos.
Cura, curia, dove si ha a che fare con il sacro.
Parlando la cura, narrando la sagacia.
Narrando si può aver cura delle cose, del bene-dire.

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