La fata morgana e la madre ignota

 

L’indagine sulla “Fata Morgana”, popolare figura citata anche in canzoni e poesie, porta a Morgana, donna sorella e amica di Re Artù, donna bellissima con poteri soprannaturali, amante per eccellenza nel mitico ciclo bretone.

Nella città di Reggio Calabria, volgendosi verso il mare, verso lo Stretto e quindi verso Messina, si segnalavano apparizioni di bizzarre e suggestive immagini, seducenti popoli e marinai, interroganti numerosi e numinosi dotti.

Il fenomeno era dovuto alla rifrazione della luce, cioè ipotizzando la luce suddivisibile in raggi, la rottura e la deviazione degli stessi che crea l’illusione, il gioco, lo scherzo di figure e oggetti sospesi nell’aria.

Fenomeno che in era Napoleonica venne chiamato mirage, ovvero il miraggio, il fenomeno osservato dagli eserciti durante la campagna nel deserto Egiziano.

La ricerca etimologica del temine fata apre differenti strade, a partire da fatu, qualcosa che ha a che fare con il parlare, il pronunciare.

L’accezione odierna di fato è da intendere come se il parlare fosse riservato a qualcun altro, spesso a Dio, a cui spetta l’ultima parola perché portatore di un parlare perentorio e sicuro, la cui versione teatrale si chiama Deus ex machina, la cui versione laica si chiama destino.

Destino che può anche essere crudele.

La stessa accezione si smussa in fatalità, qualcosa di fortuito, collegato alla sorte, ad un gioco, ad uno scherzo, che può essere fatale ed anche mortifero.

Quindi il mortifero starebbe nel destino già scritto, nel delegare ad altri il cimentarsi con la parola.

Pericoloso dunque imbambolarsi, l’innamorarsi, l’essere incantati dalla fata.

Eppure i bambini sono molto attratti dalle creature magiche, dalle figure fantastiche…perché?

“Magia” deriva da magos, colui che interpreta i sogni.

Contrariamente agli adulti, ai bambini l’interpretazione non interessa, rispetto al mortifero destino non propongono un discorso di causa, di origine, che spiegherebbe tutto ed esorcizzerebbe la morte.

Anzi, proprio perché non rappresentano e non interpretano, si rivolgono a quelle figure fantastiche come fossero rebus e sogni, perché con quelle possono inventare, raccontare, delirare.

Interessante che le fate siano donne, che nelle epoche susseguitesi si trovino similitudini con streghe ed isteriche, donne fatali e demoniache, spesso messe a morte, perseguitate, zittite, segregate, torturate.

Interessante che anche le meretrici siano state fatte oggetto, siano state sfruttate dai papponi.

Come mai le donne si immaginano e sognano spesso (fino ad arrivare ad ipotizzare la trasmigrazione delle anime in differenti vite) di essere o essere state prostitute?

Perché la bellezza pare prerogativa della donna?

Che cos’è la bellezza?

La donna più facilmente sa essere sembiante, sfuggendo apre alla relazione come impossibilità di chiusura nel rapporto. Lo sperimentano gli uomini, che con le donne sovente si trovano relatori, si trovano a parlare, a debordare.

Ne sperimentò la sembianza Freud, che frequentando le isteriche approdò alla scrittura, all’elaborazione, all’astrazione incessante.

Ma la donna non è l’Altro, il sembiante non è l’Altro.

“Incantato” riferisce anche di una vendita all’asta.

In spagnolo si usa Encantado per fare un complimento quando ci si trova di fronte a qualcosa di bello, di fronte alla bellezza ci si professa come orfano che è stato comprato all’asta. Già noto da sempre che il padre non è certo, si specifica che è pure senza madre. Se il complimento delle bellezza è riferito ad un simile, è come a dirgli “comprami, voglio stare con te, tu che sai non essere madre”.

Perché la bellezza, l’estetica in atto, spazza via l’affetto, la comprensione, l’anestetico terroristico e rassegnante sapere materno, lo sguardo incantante e paralizzante.

Quando le cose non vanno, non funzionano, quando si è nella rappresentazione, frustrati capita di rivolgersi in maniera iraconda verso la Madonna aggettivandola puttana. Non basta che sia una donna particolare, fecondata dallo Spirito Santo, si invoca colei che manda altrove, che non bada ai figli, la mignotta, la madre ignota.

Prendersela con la puttana dice di un discorso che demanda la colpa alla madre che non abbandona, che imperversa, o verso la quale bisogna prestare soccorrevole ed inevitabile aiuto. Madre colpevole di non lasciare soli con l’Altro, colpevole di annoiare. Noia invece che la cristiana metanoia, odio sotterrato invece che cimentarsi con la sua intransitività. Si inveisce verso la meretrice, colei che si fa pagare, perché si sente di essere in debito verso l’Altro. Ma la lamentela non è preghiera, non è esercizio, non è dispositivo, non è invocazione, non è sintonizzatore di voce. Quell’inveire è per rimandare ancora l’incontro con l’Altro.

Le donne inconsapevolmente enunciano la questione intellettuale dell’intelligere. Anch’esse, che nascondono l’Io dietro l’abuso di rimozione, necessitano dei dispositivi di Parola Originaria, dove non si può non aver cura di ciò che si legge, di ciò che si scrive, di ciò che si fa.

L’Altro, il terzo non escluso, attiene al malinteso, al gerundio, alla tripartizione dell’esperienza, non è rappresentabile né idealizzabile, interviene come funzione terza, come contrappunto relazionale nel racconto, nell’apertura, dove l’oggetto incorre ed occorre, dove l’oggetto è sembiantico.

Il rigore e la follia come attributi della parola sembiantica, di una condizione in cui le cose procedono secondo un automatismo che viene sempre dopo l’esercizio, la messa in gioco.

Non c’è bisogno di un rapporto di ruote dentate per procedere alla varie velocità, per arrivare puntuali, perché la follia non può andare senza rigore e viceversa.

Chi occupa la parte del sembiante fa da esca, perché ci sia innesco, ci sia dispositivo di Parola Originaria.

La fata morgana, il sembiante, l’etimologico fatu, riferisce di un pronunciare come annunciare, di un nunzio, di un nuere, di un cenno, di un gesto perché le cose siano solamente accennate, sempre pleonastici preamboli, dicano di un’attitudine verso qualcos’altro, portino alla maniera come stile, come qualifica della mano intellettuale.

E la sorte non può andare senza ironia, senza l’ironia della sorte di trovarsi a fare le cose che non si vorrebbe fare, a sproposito, di pensare una cosa e farne un’altra, di trovarsi non d’accordo con le cose che noi stessi diciamo.

Il percorso intellettuale procede dal giocarsi, dal nominare gli animali, le creature, le figure fantastiche, i sintomi che incontriamo nel viaggio.

Il percorso intellettuale per incontrare l’ironia, dove non occorre più raccontare barzellette per far ridere, per avere l’attenzione su di se, così come non ci si sofferma più nella modalità dello scherzo e della burla.

Non c’è più bisogno del sortilegio perché si volge al riso invece che fare delle tragedie. Dal fare, dal dire, dal viaggio sortiscono eventi divertenti, sorprendenti, interessanti, ironici.

La vita diventa fortunata, attraverso la nominazione la fortunale tempesta, che tentava come un urlo di spezzare il pesante rapporto tra significante e significato, è sostituita dalla leggera armoniosa brezza dello Stretto di Messina, che dei significanti ne fa un’immensa risorsa.

Approdando al viaggio non ci si perde più in tentativi, non si cade più in tentazioni, occorre fare, occorre proseguire.

 

23 Ottobre 2009

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