Una sconfinata giovinezza

 

Una sconfinata giovinezza, ovvero cosa si può intendere da un film che non è cinema, non è Kinema, non è motion, non è emotion, non è racconto, non è movimento. Non è neanche un film all’italiana.
Film la cui visione non può che portare a concordare con chi ha deciso di escluderlo dal Festival di Venezia.
Estrapolando comunque una frase, è possibile aprire un argomento, specificabile in un accadimento che ha suscitato l’attenzione dei media nei giorni a seguire. L’argomento è quello della madre.

Come intendere la madre dopo l’Atto di Cristo come Atto di Parola?
L’Atto di Parola, la parola in atto, il gerundio della vita, di cui non si trova un inizio né si giunge ad una fine, ma dal quale emana e sgorga l’originario, l’eternità, la verità. L’atto di Cristo che porta con se la questione trinitaria Padre, Figlio e Spirito Santo, sideralmente distante da un discorso genealogico.
Come intendere dunque la madre all’interno della Parola Originaria?
La madre, la mater, la materia della parola, l’insostanziale materia, il deittico, la direzione tra il va e vieni della Parola.
Come interviene il tempo nel gerundio, facendo?
Il tempo interviene se non è rappresentato secondo la logica di inizio e fine del tempo, secondo la consecuzione passato, presente, futuro, cioè del sempre presente, del presente a se stesso, del presenzialismo, dell’interventismo, nell’impossibilità di togliersi dal presente in quanto il passato sarebbe ricordo del presente e il futuro sarebbe costruibile partendo dal presente, ma rimanendo pur sempre solo un’idea rispetto alla concretezza del presente.
Il matricidio come cronologizzazione del tempo, concretizzazione del tempo.
Col matricidio ecco che tutto diventa sistema, al quale possiamo dare il nome di fantasma materno, perché l’idea matrice di tutte le padronanze, i saperi, le certezze di se e dell’altro, di come starebbero e andrebbero a finire la cose, è quello della mamma rispetto al figlio. Lei rispetto al padre è certa, perché il figlio è sangue del suo sangue, l’ha avuto nel grembo per nove mesi, lei lo conosce.
E questo sistema, questo stare insieme sistemati, sistemati per le feste ricercando la simbiosi, perché generati nella simbiosi, ha anche i suoi effetti.
Uno è la regressione infantile, che il regista immagina accadere al protagonista colto dal Morbo di Alzheimer, che la voce narrante mette in parallelo alla scomparsa nella tana dove si rifugiava da bambino quando voleva isolarsi dalla madre.
Altro effetto l’assoluta sicurezza, l’inscalfibilità che si leggeva in Ivan il terribile, il tifoso serbo che sulle staccionate dello stadio di Genova capeggiava il branco di ultras, che con le loro goliardie hanno reso necessario l’annullamento della partita di calcio tra Italia e Serbia.
Si è scoperto che il trentenne energumeno Ivan vive con la madre (che lo definisce molto tenero), fa l’uncinetto con lei, e mantiene l’immarcescibile coppia vendendo un po’ di droga.
L’amorevole connubio madre figlio è tema principale dello straordinario film di Paolo Sorrentino L’amico di famiglia.

L’Alzheimer dunque, morbosa come tutte le malattie, è qualcosa di cui ben poco si sa. Interessante però che sembri avere lo stesso principio del cancro, uno scherzo chimico, una proteina che impazzisce.
Ma se in informatica siamo giunti ai computer che prendono i virus, come non pensare che la pazzia non possa essere sistematizzata, sedata, elettrochoccata, ingabbiata.
Oggi tutto sembra essere inglobato nel sistema invece che dimorare nella Parola. Oggi che l’isteria sembra aver perso l’enfasi che studiavano Freud e Charcot, che la nevrosi ossessiva sembra presentare meno rituali, come non intendere queste anomalie come protesta dell’Altro?
Occorre indagare ed elaborare la pazzia, mai dare nulla per scontato ed acquisito. La verità non è assumibile come uno psicofarmaco, procede dall’articolazione.
Parafrasando il titolo del film, la giovinezza non attiene alla libertà senza confini ma alla libertà nella Parola, dove il confine tra corpo e scena si scrive incessantemente.

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