Departures

 

A chi ha visto Departures la proposta di proseguire il viaggio.
A chi intende proseguire il viaggio è chiesto di andare oltre, di tralasciare l’evidenza di un film a misura d’uomo, delicato, suscitante sentimenti emozioni e commozioni.
La tanato estetica del film è espressa in modalità tipicamente orientali, propriamente zen, con la delicatezza nel trattamento di un cadavere, difficile da ottenere con il corpo del defunto assolutamente irrigidito.
Pochi si sono trovati o si troveranno a preparare un cadavere per le esequie funebri. Qualcuno in più ha esperienza dell’impressione, della paura che può suscitare trovarsi a guardare il volto di un cadavere.
Questo viaggio sarà integrato dal bellissimo libro di Banchisio Bandinu La Maschera, la Donna, lo Specchio, straordinaria traversata della mitologia e tradizione sarda.
Così Bandinu: “C’è una pausa perturbante in cui il moribondo così famigliare sta per diventare altro: si ortat a mascara, si trasforma in maschera. Corpo caro e soma estraneo: su corpus s’assomat, il corpo si fa soma, peso senza vita. Avviene qualcosa di estraniante per cui il volto comincia ad assomigliare a se stesso….il volto del defunto est a visera, si è irrigidito in maschera, fissazione che rischia da un momento all’altro la rianimazione. Perciò il morto non deve essere lasciato solo nella stanza per troppo tempo: vive l’ambivalenza della stasi e del risveglio. Qualcuno deve vigilare il defunto ma anche il guardiano, su tentatore…e comunque non deve fissare il defunto: se incontra il suo sguardo subisce uno spavento sacro che inverte il corso del sangue. L’incantamento della maschera procura smarrimento e follia. Maschera del defunto come specchio straniante. Il morto è la sembianza più vera del proprio destino: è il testo dell’esistenza, scrittura di un’esperienza. La smorfia del defunto condensa tutte le connessioni del tempo vissuto, ma nello stesso tempo è cifra di ciò che è rimasto nascosto, la parte in absentia della vita. Il detto popolare dice che la maschera del morto è la cristallizzazione dell’ombra che per l’intera vita ha fatto da controcampo al corpo…”.
Qualcosa di simile, anche se in qualche modo opposto, avviene rispetto al neonato, dove la stranianza non segue ad una cristallizzazione, ma l’animazione è alterata, è una sur-animazione, che può apportare estasi nel guardarla. Ed è così preziosa, così sacra che occorre vigilare, occorre assiduamente prendersi cura di un neonato che sta male, sarebbe terribile si spegnesse quella stranianza.

Nell’iconografia sarda è rintracciabile la madre ad abbracciare il figlio morto, il figlio ucciso.
Cosa coglie la madre nell’accoglimento del corpo del figlio morto?
Perché la madre e non il padre, pronto solamente allo spargimento di sangue, alla vendetta?
Perché nei Vangeli Giuseppe di Arimatea avvolge il corpo di Cristo nel lenzuolo ma sono le donne che vanno ad ungere e aromatizzare, a prendersi cura del corpo di Cristo?

Nel film di Yojiro Tacita è addirittura il figlio a prendersi cura del corpo del padre.
Qua si enuncia la questione della madre come indice di qualcosa che va oltre la donna, oltre il padre, oltre il figlio, oltre l’umano. Ecco l’Humanitas che non è di questo mondo.
Qua si enuncia la questione del corpo vitale, del corpo in gloria, del corpo pulsionale.
A parlare non è il corpo della donna indemoniata e strega, della donna anticipatrice, della donna vacante che parla a vanvera, della donna ventriloquo.
Non è l’inconscio come linguaggio del corpo a parlare, perché il corpo parla, vive perché preso nel Parola. Ma quale Parola? Il non del linguaggio, il linguaggio impossibile del corpo in gloria, immortale perché preso nella Parola Originaria.
Una lingua indicibile, tanto che Armando Verdiglione la intende tra l’altra Lingua e la lingua Altra, tra l’altro Tempo e il tempo Altro.
E così i biblici miti di Babele e della Pentecoste.
La madre non ha complicità con il figlio, non c’è comunicazione diretta. Il sangue dello stesso sangue perché lei si affianca con l’improprietà dell’esperienza, con l’esperienza di un corpo immondo, un corpo indomestico, non addomesticabile, sanguineo, mestruale, fluido, inarrestabile, fluente come un fiume carsico, che va in calore, indice di una sessualità non tarpabile con il godimento erotico del più eretto e lineare obelisco, né riempibile con lo spermatico liquido. Si affianca al nascituro nell’impatto Originario del corpo pulsionale.
L’austerità, la severità materna non ha nulla di patriarcale, non è soggettuale, manualistica, da gioco di ruoli. E’ assoluta, è l’esperienza originaria, è l’esperienza di vita che si scrive.
I miti, i racconti sardi non narrano di personaggi di Sardegna, sono la narrazione della difficoltà di separarsi dalla matria, dalla terra, dalla patria. La questione che viene elaborandosi riguarda anche la donna. Ciascuno come autore impossibile della madre come mito, come saga, come racconto di un passato che si scrive nel futuro, sempre secondo, secondo l’occorrenza delle parole usate per scriversi, autore di una testimonianza che prende corpo, che prende tono.
Perché sia possibile il distacco dalla mamma, dalla patria, dall’identità, occorre il distacco per cui le cose sono prese nella spirale della parola, ove non è possibile vedere e udire direttamente.
La narrazione come atto scientifico di memoria originaria, mai prima, mai ultima, mai definitiva.
L’attività di scrittura come scommessa perché l’atto non sia mai stato commesso, perché non dia adito al discorso inquisitorio, ma tragga la giustizia dalla sembianza, dalla maschera, dal simulacro della parola.

Questa traversata porta all’intendere la sembianza nella parola.
L’analista può occupare dunque il posto del sembiante?
L’analista può essere il padre di cui si sarebbe in cerca, perché mancherebbe nell’odierna società la funzione paterna?
Lacan diceva che l’analista risponde, funziona inconsapevolmente, involontariamente, con il suo esserci. Dopo questa traversata occorre intendere questo “esserci” come “occorre che sia madre”, che sia corpo in gloria, come dice Armando Verdiglione, sia indice di malinteso. Di fronte al distacco, alla ferita incolmabile della Parola Originaria è come dicesse “prosegui sull’orientamento della traccia, continua a dire, l’angoscia non è fagocitante, va accolta come strettoia, come collettore per la riuscita”.
Dispositivi di direzione come l’analisi perché la questione sia aperta.
Nessuna possibilità al discorso diretto della domanda e della risposta.
La questione non può andare senza apertura, perché la questione è aperta e le cose giungono a sembianza, barluminano nella parola, autorizzano ad usare la parola “questo” Ecco Istu. Ecco, qualcosa viene incontro, ecco che si scrive, si cifra, si qualifica, nel gerundio della vita ecco che le cose avvengono e si fanno, si dicono senza precedenti, con assoluta novità si trova l’idea, la strada per proseguire.
E l’idea non è farsi o avere l’idea di se e degli altri, ma l’idea come trovata.
Impossibile trovare le idee e poi mettersi a fare, a raccontare.
Raccontando, scrivendo, facendo si trovano le provvidenziali idee, i puntuali incontri, le straordinarie risorse.

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