Ma perché si fa un film con l’intento di commuovere?
Ma perché si vuole sacralizzare un evento come la Shoah?
Un film non dovrebbe voler dire nulla, dovrebbe inventare dei personaggi più ancora che delle storie.
Questo film che imbecillità vuole continuare a dire? Che c’è la causa originaria, il trauma originario? Sara si suiciderebbe perché non ha saputo superare il trauma e il senso di colpa del fratellino morto?
E che vogliamo dire della paladina della verità, che vuole informare tutti di come starebbero le cose?
Il Giorno della Memoria per non dimenticare, uomo avvisato e timorato mezzo salvato. E intanto l’apoteosi del ricordo, l’Alzheimer come precoce commozione cerebrale.
Cosa sente la protagonista del Tamburo di latta, quando si suicida ingozzandosi di pesce, se non l’arrivo della Shoah? Il pesce, Cristo nella simbologia orientale. Lei si ciba del corpo di Cristo perché manca la Parola di Cristo, la parabola, la favola. La sua è una denuncia.
La denuncia porta a delle indagini e quante volte il colpevole è stata l’isterica, la strega, il demonio, lo straniero di turno.
L’isteria denuncia perché ci sia indagine intellettuale, e questo Freud l’ha colto molto bene, su questa scia ha proseguito.
Nel Tamburo di Latta la denuncia è perché venga indagata la Shoah e tutto ciò che ha portato alla Shoah.
Se la pazzia non è indagata è sistematizzata, la psicosi diventa di massa, Hitler e le masse inebetite. Oggi sistematizzata nello statalismo sindacalizzato, dove espunta è l’Autoritas, a colpi di gerarchie ed organigrammi, d’accordi quadro sotto l’egida della Ugualità. Oggi sistematizzata in una imprenditoria basata sul plus ultra monetizzabile ed incrementabile all’infinito, l’infinito del tempo spazializzato.
E così Primo Levi trova insostenibile il sistema, lo standard, la mediocrità giornalistica, gli scempi dell’edilizia post bellica.
Sara voleva dimenticare, si è cambiata nome, voleva cancellare il passato e ha però abbracciato la vita standard.
Oggi orde di giornalisti, di registi con tanto di diploma di regia, vogliono ricordare, vogliono far ricordare, vogliono svelare il segreto.
Invece cosa fa il depresso Federico Fellini? Va in analisi, si trova regista e si fa attraversare perché film come Amarcord si scrivano.
Amarcord, ovvero il passato è un’invenzione, il passato occorre inventarselo. Il sogno deve informare la vita, altrimenti il racconto si fa cronaca, la dimenticanza si fa smemoratezza, i soggetti sognano ad occhi aperti, si alimentano di ideali.
I depressi Fellini e Von Trier sul set erano e sono assolutamente autorevoli. Si narra che intorno a Fellini, mentre dirigeva un film, oltre alla troupe ufficiale, si formasse una sorte di corte dei miracoli, dei disadattati che collaboravano gravitando letteralmente intorno a lui.
La questione da indagare che si pone è quella della depressione in relazione all’Autoritas e alla Governance, e quindi alla questione del Nome.
Se qualche ardito regista, o qualche illustre guerrafondaio ebreo, avesse ancora intenzione di cavalcare l’onda lunga della Sacra Shoah, sarebbe conveniente che si guardasse Train de Vie, chissà che non colga qualcosa della questione della Shoah, ovvero: com’è che un popolo sospeso nel fantastico, nel sogno, come il popolo del violinista sul tetto, era così insostenibile da pensarne il suo sterminio?
Il Nome occorre farlo funzionare, non si può uccidere.
Il lutto, ovvero il Nome non muore.
Come intendere il parricidio dunque?
Si può pensare il parricidio senza la sessualità?
Di che sessualità stiamo parlando?