La professione, l’esposizione, l’esibizione, la forzatura

 

Chi è un’atleta? Uno che combatte.
Contro chi? Contro cosa combatte?

Chi è un ginnasta? Uno che si esercita.
Cosa esercita? Una professione?

Allora un ginnasta è un professore, che professa, che espone.

Perché l’umano giunge da più parti all’esposizione? Un esame, una interrogazione, oppure come attore, come cantante, come tennista?
Espone e si espone, si espone tra l’altro al rischio del pubblico ludibrio.
Ma allora perché tende a ciò che soffre?

Che differenza c’è tra il pubblico e il privato?

Il privato è tale perché è privato, manca di qualcosa che si troverebbe nel pubblico?

La pubblicazione come forzatura per concludere, per cifrare, per tracciare la direzione. La cifra non è sintesi, non è riassunto di ciò che è stato, non è sinteticamente ripetibile e duplicabile, trasmissibile. La cifra si rivolge all’avvenire, e pone come condizione il debutto, per un procedere non fondato sul sapere ma sulla fede e sulla provvidenza (rende bene l’idea della fortuna del principiante).
Occorre concludere perché il viaggio non finisca, perché non si chiuda nel pubblico ritorno ad una famiglia genealogica, sociale, totale, totalmente allargata. Questa la battaglia dalla quale non è possibile dimettersi.
Armando Verdiglione parla della famiglia come traccia. Se c’è cifra, se c’è conclusione, s’incontra la famigliare e perturbante domanda: da dove vengo e dove vado se le cose procedono dal futuro?

Anche il discorso erotico si espone, ma lo fa come esibizione.
L’esposizione non è soggettuale, è associativa, integrativa, punta a porre domande.
L’esibizione è di un soggetto che non domanda, che ha la risposta, che è dotato, molto spesso superdotato, che punta a stupire, allo stupefacente, a fermare, a sedare, ad istupidire.
L’esagerazione per colmare la dote insufficiente a giungere al matrimonio come intesa, al patrimonio, quando invece il patrimonio intellettuale a cui giungere si fonda sul malinteso, sul lapsus, sull’equivoco, sul tradimento quindi.
Un erotismo che punta sulla cattura e sulla tentazione a cui non è possibile resistere, cadendo in tentazione, sempre la stessa: “Facciamo tutto alla luce del sole, denudiamoci”.
Una esposizione che non sia alla forzatura, come quella dei naturisti, dei nudisti, fa ricordare il presidente Schreber, un’esposizione ai raggi solari, anche senza crema, tanto non ci si scotta, non si paga più lo scotto.
Più che tutto non si paga, perché ci si sveste e non s’investe, si sputtanano i soldi, si va a puttane, alimentandosi d’ingordigia, cibandosi di ciò che è tanto e di ciò che è gratis.
E’ lo stesso discorso di quelli che puntano sul talento, fondandosi sulla legge del minimo sforzo, invece che scommettere sul lavoro, sulla messa in gioco, sull’investimento, sulla forzatura per ospitare il genio, la genialità dell’occorrenza.

La paura dell’esposizione, la difficoltà di relazione con il simile, apparentemente paura dello sguardo della quale si contraddistingue il discorso ossessivo.
Ma è proprio paura dello sguardo? O è paura di copertura così come il discorso isterico istituisce l’oggetto fobico o si fa venire l’attacco di panico, l’attacco epilettico?
Originaria e impossibile da togliere la paura, l’angoscia rispetto all’ostacolo colto come assoluto.
Per la riuscita, per la soddisfazione, per il miracolo, nel fare e nell’agire non si può evitate l’angustia, la strettoia e la forzatura di un oggetto irrappresentabile chiamato sembiante, tripartito da Verdiglione in specchio per la sua funzione di causa (che non trova origine al movimento, all’energia, semplicemente indica che la cosa non è mai quella…ancora, ancora, proseguiamo), in sguardo per la sua funzione dispensatrice (che riguarda tutti, della quale, come l’evangelica novella, tutti si possono saziare), in voce per la sua funzione identificatoria e quindi anatomica.

La pubblicazione come dispositivo di compimento, di conclusione.

La conversazione analitica dunque che dispositivo è? Si direbbe dispositivo d’isterizzazione in quanto non toglie lo sguardo, non punta sulla sottrazione ma distrae rispetto ad esso, perché la dispensazione di accadimenti non sia direttamente lì, ma solamente si tracci (la conversazione spesso risulta difficile, transitoria).

E la scrittura? Apparentemente toglie del tutto lo sguardo e la voce, si può ipotizzare come dispositivo di sottrazione, di privatizzazione, di castrazione assoluta “nessuno mi disturba, nessuno mi guarda”. Ma anche ancora dispositivo d’isterizzazione perché risulta strumento impadroneggiabile, si vorrebbero trascrivere i perfetti e lucidi pensieri ma ciò è improponibile, l’unica soluzione è proseguire.
Dispositivo di professione, perché con essa ci si scopre ginnasta tramite la mano che si scioglie, pittore tramite il racconto, scultore tramite la poesia.
Tolta la rappresentazione dello sguardo è possibile usufruire delle virtù dello sguardo, è possibile vedere, è possibile seguire il filo della scrittura.
Ci si scopre visionari e profeti, come testimonia Italo Svevo nella postfazione a La coscienza di Zeno, dove dice di essere diventato ciò che ha scritto, o come fa intendere Gabriel Garcia Marquez attraverso Melquìades, il vecchio zingaro di Cent’anni di solitudine, che scriveva in anticipo gli accadimenti della famiglia Buendìa nel villaggio di Macondo.
La scrittura è anche il dispositivo più destabilizzante, come accenna Cronemberg ne Il pasto Nudo.

La scrittura, il transfert, la peste, il contagio, l’integrazione.
Il dispositivo dell’analisi per sancire l’impossibilità del rapporto soggettuale, della relazione a due, del trauma originario, l’impossibilità di analizzare una situazione, di mentalizzare, di soggettivare il disagio e non coglierlo come occasione di caso letterario.
Il transfert è di scrittura, occorre lasciare che l’Altra mano, la mano intellettuale scriva. Occorre lasciarlo scrivere quel sublime pittore, scultore, danzatore.
Il transfert e l’amore, il transfert e l’odio.
L’amore, la generosità, l’accoglienza, l’ospitalità, la tolleranza, la bellezza della vita.
L’odio, il non padroneggiabile, lo scorbutico, l’impertinenza della vita.
Il transfert e la peste.
Il transfert di parola e di scrittura, non fenomeno soggettuale.
Impossibile farne a meno, impossibile non integrare provocando.

3 Settembre 2012

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