Erri De Luca, La saggezza di un destino che per compiersi deriva

 

9 Maggio 2007 – Biblioteca Geisser – Torino

Dieci mesi fa eravamo qua ad interrogarci sul fenomeno della scrittura.

Ultimamente nei lavori di Tracce Freudiane ci stiamo occupando della voce.

Nella scrittura la voce sembra essere sospesa.

Abbiamo letto, abbiamo interrogato, abbiamo incontrato differenti scrittori, differenti stili di scrittura.

Ricordo l’incontro in cui intervenni a proposito di Italo Svevo.

Italo Svevo ed in particolare La Coscienza di Zeno, che completa la trilogia cominciata con Un Inetto e proseguita con Senilità, nella quale Svevo racconta della sua maturazione come scrittore, dell’approdo alla Scrittura.

Sul finire dell’incontro la citazione di un proseguimento della Coscienza, Le Confessioni di un Vegliardo, nel quale è Zeno a parlare, ma è più che mai Svevo che racconta. Zeno che passa al lettore le impressioni suscitate dalla rilettura della Coscienza come l’avesse scritta lui, e dice che nulla era rimasto di cosa intendeva raccontare, nulla si era fissato nell’ordine del significato, del ricordo, del dato storico, ma ritrovava la vitalità di quei tempi di scrittura, la vitalità della Scrittura. Se pensava a chi era lui in quel momento, non era certo il coscienzioso Zeno che immaginariamente aveva vissuto, ma bensì cosa la scrittura, cosa l’inconscio fece sì che un colui si scrivesse, che venisse descritto.

Italo Svevo scrisse romanzi, tentò di dire del fenomeno della scrittura, e venne incuriosito ed interessato dalla nuova disciplina chiamata psicanalisi, la quale venne collegata, inserita, citata, interrogata proprio nel romanzo del suo compimento come scrittore, la Coscienza appunto.

Perché chi intraprende il percorso dell’analisi, incoraggiato o no dall’analista, per accedere al pragma spesso si rivolge alla scrittura?

Perché Freud quando era in difficoltà non poteva uscirne con azioni consce, ma doveva rivolgersi alla scrittura intendendola come atto inconscio?

Quanti in difficoltà sono costretti a scrivere poesie?

Perché il cantautore Luciano Ligabue, che si dice solamente a suo agio sul palco e scrive comunque canzoni, per elaborare un lutto si trova a scrivere poesie?

Freud rifletteva sul fatto che alcune persone incontrino grosse difficoltà a superare un lutto, ed ancor più su come il crollo di un ideale potesse essere vissuto come un lutto per la morte di una persona cara.

Ma è il lutto per una persona cara che ha a che fare con il crollo di un ideale, non viceversa. Perché con il lutto, e quindi con la sua elaborazione, si ha sempre a che fare senza neanche accorgersene.

Quale lutto? Quale ideale?

La morte dell’idea, dell’immagine e dell’immaginarsi, del significato che l’attività di scrittura inesorabilmente ed immancabilmente propone. Non ci sono parole che possano tradurre integralmente ed una volta per tutte le immagini, ma occorre comunque tradurre.

La Scrittura come dispositivo di Parola Originaria, come dispositivo verso qualcosa di nuovo, verso un accadimento.
Freud diceva che se non aveva un leggero malessere non iniziava a scrivere.

Quando Freud chiamava psicanalisi la peste intendeva appunto questa dinamica.

Intendeva lo squarcio della Parola Originaria.

Perché aspettare la morte di qualcosa o di qualcuno, la fine di un amore per scrivere?

Perché vivere come tragedie vicende non facili della vita, perché rischiare di farne una malattia?

Perché non tingere di narrativo, di pragmatico l’itinerario?
Perché non esercitarsi nella parola estrema invece che ricorrere ad estremismi?

L’analisi palestra per esercitarsi con l’impertinenza, con la scontrosità, con la provocazione del sembiante.

Solamente sapendoci fare, sapendo giocare, sapendo faticare con il sembiante, è possibile veleggiare con l’Altro, essere in armonia.

Scrivere come dispositivo intellettuale per poter intendere e non capire, per esercitarsi in una dimensione di simultaneità dove il lutto e l’elaborazione del lutto sono contestuali. Muore l’idea, la padronanza sull’idea, la previsione e la premeditazione, e simultaneamente si elabora il lutto, si è al lavoro, si è nel fare pragmatico, nella poiesis.

La parola estrema è viva, è sospesa, è precaria, provoca quell’ansia che indirizza verso il Kairos, l’incontro, la sorpresa.

Dispositivi di parola originaria per fare esperienza autentica, per fare esperienza della morte. Straordinario Rainer Maria Rilke nella poesia L’esperienza della morte, quando cifra come appare improvvisamente autentico il mondo dopo un lutto, e come di quanto auspichiamo la morte del soggetto, fino al punto di “recitare non pensando all’applauso”, sospesi sul confine tra corpo e scena.

Lacan dice che un’analisi si compie quando si giunge ad una paranoia controllata, ma anche a farci rilevare delle fasi fortemente deliranti all’inizio di un’analisi (da qualcuno chiamate transfert negativo), cioè proprio come se si piombasse in una condizione di post lutto.

Ma come può scatenarsi una simile condizione solamente parlando, se non fosse contestuale nei dispositivi di Parola Originaria la simultaneità tra lutto ed elaborazione, tra castrazione e sessualità, tra fare e poesia?

Nessun trauma originario perché il trauma attiene al sogno ed al delirio, che irrompono destabilizzando corpo e scena.

Perché allora ontologizzare? Perché fare delle questioni una malattia introducendo la dicotomia malessere – benessere?

Scrivere per poter leggere Freud, per poter cogliere ciò che l’inconscio gli ha consentito di scrivere, cioè che non c’è nulla da curare, non c’e da dirsi malati, ma occorre cavalcare l’onda del malessere, del disagio, del non dell’essere, del sintomo non sintomatico ma accidentale, che accade, che cade, che occorre ed incorre e quindi che necessita di essere detto, di essere preso in una nominazione.

Perché intendere il disagio come segnale di un dramma, dello psicodramma, dell’inconscio da smascherare?

Perché dare un nome al disagio per tramutarlo in malattia, sostantificarlo per poterlo trattare con la sostanza dello psicofarmaco?

Non possiamo dare un nome alle cose, possiamo solamente raccontarle, non possiamo ricorrere al nome del padre, occorre che il nome funzioni nella rimozione, che sia funzionale.

Il nome si può solamente dimenticare per poterlo incontrare: quello è il nome che cercavo, quello il nome che si è scritto, il nome che procede dall’apertura, dall’intervallo. Abitare l’intervallo per incontrare infiniti nomi nello scorrere dei significanti. Abitare l’intervallo, procedere dall’infinito per non essere abituali.

Non si può essere padre, ma occorre diventarlo nell’occorrenza, rimanendo figli.

Nessun sapere, nessun comandamento, nessuna morale, nessuna etichetta, nessuna destinazione, nessuna predestinazione, nessun esempio, nessuna semplificazione.

Costume ed etica, viaggio ed approdo al viaggio, alla dimensione intellettuale, alla dimensione dell’intendimento e del malinteso.

Arriviamo così ad Erri De Luca.

E’ un peccato che De Luca non sia con noi questa sera, perché degli scrittori da cui abbiamo preso spunto, era l’unico di cui potevamo ancora sentirne la voce.

Sarebbe stata l’occasione per un’intervista, una conversazione, un dibattito, un racconto per dirci qualcosa della sua relazione con l’attività della scrittura.

L’incontro con gli scritti di De Luca è avvenuto circa un anno fa, quando lessi il libro che un’amica consigliò e prestò.

Il libro è Montedidio, bello in quanto onirico, fantastico e leggero, in quanto romanzo nel quale De Luca riesce a distaccarsi apparentemente dal suo vissuto, dalle sue idee, riesce fortemente ad essere catacretico, a procedere per abduzione.

Nella gran parte dei libri di De Luca è molto presente il suo passato, il tratteggio della figure del padre e della madre, l’elaborazione del senso di colpa per i compagni di Lotta Continua finiti in carcere e condannati, la ripresa di ideali che gli anni del ’68 avevano posto come stendardi.

Lui, che dopo quei caldi anni, ha fatto esperienze come operaio in svariati ambiti ed in numerosi Stati.

Lui che racconta le avventure come alpinista e la disavventura africana di quando contrasse la malaria.

Prevale la forma di brevi episodi, colorati da una lirica che scorre metaforicamente in una combinatoria di significanti.

I suoi libri sono diari elaborati e riscritti, che piacciono perché popolari, perché invitano ciascuno a provarsi a scrivere il proprio diario, a lasciarlo sedimentare, ad intagliarlo, a levigarlo in modo che si cifri.

Domani De Luca sarà al Salone del Libro con lo spettacolo Chisciotte e gli invincibili.
Considera invincibili personaggi come la creatura di Cervantes, perché malgrado le sconfitte continuano ad inseguire i propri sogni, i propri ideali.
Per noi ciascuno è invincibile perché non si scoraggia per le difficoltà del labirinto, non se lo rappresenta e prosegue, perché essendo nell’attraversamento l’approdo è il viaggio, il racconto, il sogno, la dimenticanza, la memoria.

E giungiamo così anche al titolo dell’incontro odierno: La saggezza di un destino che per compiersi deriva, estratto da Zig-zag, episodio di Alzaia, raccolta di articoli che De Luca scrisse tra il 1996 ed il 1997 per il quotidiano l’Avvenire.

Il nome Alzaia è riferito alla fune che serve per trarre le chiatte dalla corrente.

Quella fune è il nome che ci occorre, ed il libro ha un nome per titolare storie, citazioni, sogni, traduzioni.

Quel nome consente di guardarsi indietro e vedere quella fune che ci sospende momentaneamente nella corrente, nel fiume, tra il rivo e il derivo, procedendo alla deriva spinti dal vento e guidati dalla corrente.

Quella fune è tesa e ci fa sembrare le cose come fossero andate in linea retta.

Ma per procedere abbiamo instabilmente zigzagato, siamo andati alla deriva.

Per derivare occorre non avere deriva, non avere la deriva che le imbarcazioni portano sotto lo scafo.

Per procedere derivando occorre integrare.

Per derivare non occorrono le derivate, che rastremerebbero il tutto ad una retta se non ad un punto, ad un numero e quindi all’esoterismo, ma gli integrali, cioè linee curve dove le funzioni tendono verso l’infinito.

Curve come spirali, come figure topologiche, e non si tratta di procedere il più velocemente possibile verso l’infinito perché l’infinito è attuale, è in atto, non è spazializzabile, non è cronologico.

In tutti i campi delle scienze ad un certo punto si cerca la quarta dimensione.

In architettura ci si può chiedere: se disegniamo su un foglio a due dimensioni una presunta realtà a tre, qual è la quarta dimensione che togliamo facendo i modellini degli edifici?

Oppure: se il punto è traccia della retta, se la retta è traccia del piano, se il piano è traccia di un solido, di una cosa, allora questo solido di cosa è traccia?

La quarta dimensione è il tempo non cronologico, il ritmo del gerundio della vita, del fluire delle cose.

Il solido è traccia di qualcosa di non solido, di imprendibile, di precario, di assoluto.

Se si è in questo intervallo, se l’infinito è in atto, l’Altro, l’Inconscio, la mano intellettuale, taglia e rilancia il nastro di Moebius.

Zig-zag riprende uno stralcio del discorso che il poeta russo Iosif Brodskij fece nel 1987, quando a Stoccolma ritirò il premio Nobel per la letteratura.

Discorso integrato nel libricino Dall’Esilio, libro orientato al rilancio della vita poetica in quanto pragmatica.

Zig-zag che leggeremo integralmente per cogliere come De Luca sia riuscito magistralmente a rilanciare l’epiteto di Brodskij.

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