La pena

 

In una lettera del 10 Ottobre 1877 Paul Ree comunica a Friedrich Nietzsche le evoluzioni della ricerca storica che sta effettuando sulla “pena”…oggi noi le proseguiamo.

Pena: dal latino Poena, dal greco Poiné, dalla radice Pu = purgare, nel sanscrito Punya = puro.
Il fantasma che sottende alla pena sarebbe il fantasma della purezza, della nettezza. Purificare, nettare, purgare, spurgare rendendo conto al fantasma di parità, di ritorno all’origine. Qualcosa si è mosso è occorre riportarlo al suo posto per garantire lo stallo, l’immobilismo, la purezza.
Questo pagamento da corrispondere, che un’altra radice indoeuropea collega alla “pena”, è necessario per ricomporre l’uno originario che per qualche motivo si è scisso.
Tutto ciò appare celato dall’evidenza sociale, comunitaria. Ma accade che qualcosa sfugga alla logica comunitaria, alla legge comunitaria, c’è chi esce dall’insieme degli ognuno, dall’insieme degli individui, dall’insieme degli indivisibili per cui dotati d’identità.
Di fronte alla crisi si cerca l’identità perduta, le cose in uno Stato vanno male perché non c’è più il valore dell’Identità Nazionale.
Ma l’etimo di identità è Idem, lo stesso, Iste Ipsus, l’istesso, cioè A non potrà mai essere A e soltanto A, A=A, ma possiamo al limite porre A=B, e il segno uguale (=) indica che quando parliamo di una cosa parliamo della sua stessità rispetto ad un’altra e quindi qualsiasi cosa si definisce per differenza rispetto ad un’altra.

Nella sillogistica aristotelica troviamo l’assiomatica dei tre principi: d’identità, di non contraddizione e del terzo escluso.
In un campo da tennis capita di sentir dire, in modi anche incaponiti: “il tennis è bello perché almeno lì una palla o è fuori o è dentro, non si può rifare il punto, non ci può essere dubbio”, quando invece su certi segni di una palla si lascia la decisione al giudice, ma il dubbio permane.
C’è da supporre che le traversie del discorso occidentale, con gli anestetismi, i totalitarismi, i fenomeni razziali, le guerre, le religioni, le contenzioni rispetto alla pazzia, i roghi rispetto alle demoniache isteriche streghe, le sostanziali risposte psicofarmacologiche, il penare, l’affaccendarsi, il girare a vuoto, lo spettegolare, siano imperniate sulla logica aristotelica.
Sono lo stesso discorso, ma la logica aristotelica non va presa come causa: “Mi sono lavato della colpa originaria che non mi appartiene, e al limite se pecco mi vado a confessare, o altrimenti mi pongo come vittima e posso tentare di fare pena, di chiedere aiuto, di demandare perché tanto non ne vale la pena, inutile tentare, propongo lo scetticismo come altra faccia dell’aristotelismo e paradossalmente sono sempre più dubbioso e immobile”.
L’istituzione della pena lascia intendere il discorso causale: c’è la pena perché c’è stata una causa che legittima la pena.

Perché gli umani nel loro vivere, nel loro procedere ricorrono all’istituzione di un fondamento? Un fondamento soteriologico che prevede una strega indemoniata o un fondamentalismo integralista. E la cosa non è da poco, perché se l’aristotelismo alla fine non è altro che un gioco sillogistico, magari parecchio noioso, predette azioni sono drastici passaggi all’atto, avvengono perché c’è una serietà, un fanatismo che nulla più attiene al gioco.
C’è qualcosa che non si sostiene, che non si sostiene in atto, nel procedere delle giornate.
Sigmund Freud rispetto al discorso isterico si è interrogato e a cominciato a formulare un dispositivo chiamato psicoanalisi, attraverso il quale le fantastiche storie raccontate dalle isteriche portavano alla scomparsa di quella che appariva la sintomatica sceneggiata isterica.
E rispetto a ciò non poté che giungere a non credere alla veridicità delle storie raccontate, per cui nessuna possibilità di basare l’efficacia della psicanalisi sul discorso trauma-sintomo, causa-effetto.
Freud si interessò molto anche ai sogni, il racconto dei quali lo fece giungere alla formulazione condensazione-spostamento, cioè le storie trovate sono così tante che la causalità non è storica, antesignana, originaria, ma l’originarietà, l’inventiva, la novità delle storie trovate raccontando immagini insensate, rende la causalità formulabile come: “ad un significante segue immancabilmente un altro significante”. La causalità è qualcosa che si trova raccontando, facendo, e il concetto di “causa” intende una situazione dove la causalità non è originaria, non è in atto, non è presa nel racconto.
Freud si interrogò anche sulla resistenza rispetto alla psicanalisi. Perché una cosa potrebbe essere l’indifferenza, ma un’altra la resistenza, e quando non basta, la fuga e lo scantonamento, fino a giungere anche al tentativo di cancellazione e soppressione.

Tutta la staticità del discorso causa-effetto per dire cosa non sia la dinamica del gerundio della vita, del due originario, della differenza sessuale, del corpo e della scena, del sembiante e dell’Altro.
Perché il sembiante non è l’Altro?
Perché è fondamentale che il sembiante non sia l’Altro?
Che cos’è quest’Altro, non eliminabile ma escludibile?
Cosa diciamo quando diciamo che una relazione per funzionare non può essere un rapporto a due ma che occorre l’Altro?
Per procedere non possiamo procedere dal punto, dal punto di vista, dal punto di partenza, dal punto di origine, ma dal punto vuoto, dal sembiante.
Eppure oggi un dilagare di manuali e di procedure, di obiettivi da raggiungere, di progetti stereotipati. L’Altro è escluso nel fare come indaffaramento, senza spirito d’iniziativa, solamente pregno di iniziative spiritate.
Il dispositivo dell’analisi per innescare l’odio in un discorso d’amore. Per questo le nevrosi vengono chiamate nevrosi da transfert. Perché l’analizzante propone l’amore verso l’analista che si sottrae, che rilancia, che rimanda altrove. L’amore autentico è quindi l’odio da transfert, una provocazione.
Se nella conversazione analitica c’è sembiante e perché la provocazione è intellettuale, le cose procedono dal punto vuoto, si incontrano narrando, imprendibili e intoccabili barluminano imperfette, gestuali, surreali, umbratili, scorbutiche, precarie e sublimi.

Dispositivi sembiantici sono anche la scrittura o la lettura di alcuni testi.
Testi sublimi come la Divina Commedia, tanto straordinari da suscitare ipotesi esoteriche rispetto alla loro composizione, o essere considerati iniziatici perché la lettura di essi provoca al fare incondizionato, prerogativa di giornate e di vite ricche di eventi ed accadimenti.
Nel gerundio della vita che procede dal punto vuoto, dal sembiante come ostacolo ostico, l’Altro è accolto e la vita è miracolosa, è gioiosa nella sua semplicità, non necessità di mirabolanti miracoli.
E’ come se le cose procedessero dal non dell’avere rispetto all’oggetto che sembrerebbe alla portata, al non dell’essere che si sperimenta facendo.
Da un corpo in gloria impossibile da detenere, da padroneggiare, ad una scena come squarcio, come infinito in atto, come modo infinito del fare rispetto alla dicotomia spazio-tempo, rispetto ad un discorso ontologico transitivo, tra un oggetto ed un soggetto, rimandando o rinunciando all’infinito.

E’ interessante notare che anche in mancanza di discorsi penitenziari l’essere umano riesce comunque a sentirsi in colpa, come se vivendo nell’ottica del sacrificio fosse alla ricerca di una pena. Ad esempio c’è chi dopo anni di pena detentiva non vuole più uscire dal carcere, e giunge talvolta al suicidio in prossimità della fine dello sconto della pena.
Ed ecco dunque Cristo che si fa uomo per liberare l’umanità dal peccato, cioè dal senso di colpa. Come? Un esempio può essere ciò che dice al ricco, cioè che deve decuplicare le sue ricchezze, come a dire di non cullarsi sugli allori, di fare, di continuare a fare senza scordarsi la parola divina, cioè il suo modo criptico, sembiantico di parlare per parabole.

27 Giugno 2010

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