La coscienza di Zeno, l’incoscienza di Freud

 

Torino, Biblioteca Geisser, 6 Luglio 2006

 

Psicanalisi e letteratura dunque.
Molti se ne sono occupati e molti hanno preso il testo di Freud alla lettera, pensando di potersi occupare del caso clinico, del sintomo, traendolo dalla biografia, dall’opera dell’autore, come se si potesse desumere ad esempio la storiella edipica che vi starebbe sotto, l’inconscio che starebbe sotto la coscienza, sotto il soggetto come pozzo nero dell’anima.
Psicanalisi invece da intendersi come percorso artistico e scientifico.
Psicanalisi che rilancia e viene rilanciata dalla letteratura perché si sintonizza su ciò che intende come approdo: il racconto, la narrazione.

Cominciamo in questo primo incontro da Italo Svevo, e da quello che è considerato come il suo capolavoro La Coscienza di Zeno, perché in questo romanzo si parla esplicitamente della Psicanalisi.
Zeno Cosini, che viene dopo Alfonso Nitti ed Emilio Brentani, rispettivamente protagonisti dei primi due grandi romanzi di Italo Svevo, Una Vita e Senilità.
Svevo ha scritto anche altro, ma è maggiormente ricordato per questi tre romanzi, che prenderemo come pretesto, in particolar modo quello che viene ormai citato come La Coscienza.
Una Vita doveva intitolarsi Un inetto, cioè chi non è adatto ad una vita naturale ma finisce per adattarsi e quindi soccombere. Nitti, dopo aver tentato la scalata sociale attraverso studi filosofici-letterari, s’impiega di banca e sposa la figlia del principale, ma in seguito si ritrova però incapace a sostenere la perdita del lavoro e delle illusioni, finendo quindi suicida.
Senilità è il romanzo di un altro inetto che di fronte al sembiante trovato in Angiolina (purissima isterica) e nell’amico Balli, vive un periodo di sogno ma non sa farci con il desiderio, lo fa proprio, lo rende soggettivo, non lascia che l’Altro desideri, che il desiderio sia sempre altrove.
La vitalità è risucchiata da una dimensione inattuale del sogno.
La questione che si evince è quella della verità e del soggetto, verità ontologica e non verità nella Parola, nella scrittura.
Brentani non sopporta la menzogna della parola, è continuamente attento al fatto che non riesce a dire quello che avrebbe voluto, cerca, non riesce a prevedere e mal sopporta le presunte menzogne degli altri, è continuamente geloso ed invidioso.
Per sopportare la menzogna occorre la vita artificiale che non può non accogliere l’irrappresentabile, il non prendibile delle cose, cioè degli infiniti simulacri. Solo così la menzogna come menzione, come ritorno alla mente, come memoria in atto, come vita in un tempo gerundio ove il passato procede dal futuro. Per sopportare la parola traditrice occorre il racconto che non si sofferma a desiderare, perché può solamente proseguire.
In questa dimensione la verità, la precisione ed il tempo del lapsus, dell’atto mancato, del motto di spirito.
In questa apertura le cose accadono, si dicono si fanno si scrivono.
La Coscienza il romanzo ove quest’inetto s’accetta in quanto precario, ove si respira tolleranza ed ironia, ove la coscienza, la consapevolezza non attengono a Zeno Cosini, ma si manifestano in un sorriso senza più illusioni.
La Coscienza il romanzo dove il protagonista procede verso l’incoscienza, dove Svevo perde di autobiografia rispetto ai precedenti, dove si conclama come autore del Novecento, periodo storico nel quale l’oggettività del naturalismo e del verismo si rivelano inadeguate ad esprimere l’inquietudine dell’individuo e della società, dove il relativismo come frantumazione del reale trova in Joyce il letterato faro.
Si potrebbe dire che Svevo ci racconta del soggetto messo alle corde dal relativismo, mentre Joyce ci testimonia di come sfruttare il relativismo per andare oltre il relativismo stesso e quindi oltre il soggetto.
Svevo voleva fortemente fare lo scrittore e divenire famoso ma trovò grosse delusioni dopo l’autopubblicazione dei primi due romanzi.
Un rapporto con la scrittura come oggetto del desiderio e non come condizione per saperci fare con l’oggetto.
Ecco come racconta di quel periodo: “Poco ci voleva ad accorgersi che se io leggevo o scrivevo una sola linea, il mio lavoro nella vita pratica era rovinato per un’intera settimana”. Oppure alla moglie Livia Veneziani: “Deve esserci nel mio cervello qualche ruota che non sa cessare di fare quei romanzi che nessuno volle leggere e si ribella e gira vertiginosamente te presente o te assente….devi pensare quanta violenza mi feci per saltare a piè pari nelle nuove occupazioni”.
Nuove occupazioni alle quali dovette impegnarsi quando fu costretto nel 1899 ad entrare nell’industria Veneziani, ma che considerò lui stesso, nella lettera ad Enrico Rocca, una fortuna. Anni nei quali si dedicò di sera allo studio del violino e di notte a scrivere cose che considerava di minor conto, quasi superflue: fiabe, commedie, atti unici, racconti, pagine di diario, lettere varie.
Poi arrivò la guerra che gli concesse del riposo e che permise di riavvicinarsi con calma alla scrittura de La Coscienza (1919-1922), pubblicata sempre a sue spese nel 1923.
Ma nel mentre, perché necessarie al lavoro, dovette prendere lezioni di inglese. Così conobbe Joyce, che divenne amico e gli permise il lancio del romanzo in Francia, per poi trovare apprezzamenti e riconoscimenti anche in Italia (tra gli altri anche Montale).
La Coscienza perde di biografia e si colora di inventiva e scorrevolezza.
Anche rispetto all’analisi, che lui non fece mai, ma che lo incuriosì per i racconti fatti dal cognato Bruno Veneziani (del quale alcune fonti dicono sia andato in analisi da Freud stesso, che lo congedò dopo anni come inguaribile), la modalità di trattazione è in stile allegorico. La storiella è che il libro sarebbero gli scritti di Zeno detenuti dall’analista Dott. S, che l’aveva consigliato alla biografia scritta come supporto all’analisi; scritti pubblicati successivamente dal Dott. S per dispetto, come esca per provocare Zeno a riprendere l’analisi.
Analisi sulla quale ebbe modo di discutere con Edoardo Weiss e Wilhelm Stekel. Quest’ultimo uno dei primi e più inquieti discepoli di Freud, che ebbe modo di descrivere il maestro viennese come: “Un trombettiere… un porco, ma un porco dotato come nessun altro di un meraviglioso fiuto per l’inconscio”.

Certo Freud fenomenale nell’inventare storie, giochi di parole, sogni e casi clinici, ma straordinario perché nelle sue opere, nelle sue teorie si respira aria narrativa, sembra di leggere novelle.
Freud fin dagli studi sull’isteria coglie l’essenziale, e cioè che la teoria del trauma originario la nevrosi non tiene, perché le storie che raccontavano le isteriche sono inventate, non corrispondono ad una verità storica. Cercherà talvolta nelle sue future teorie di riammettere il trauma originario ma la questione del racconto, dell’astrazione e dell’invenzione, venne subito in evidenza.
Freud stesso, dopo la morte del padre del 1896, attraversò un periodo difficile che lo costrinse a quella che lui chiamava autoanalisi, dedicandosi all’associazione libera scritta a partire da sogni, lapsus, atti mancati, che poi ammetterà non aver mai abbandonato, riservandosi una piccolo spazio prima di andare a dormire, una sorta di diario.
Come Svevo non teneva in considerazione quelli che considerava scritti di poco conto, così Freud i carteggi con Fliess, sicuramente sembiante per lui. L’importanza di questi scritti, e l’importanza di Fliess per Freud, si evidenzia proprio nel momento in cui lui stesso s’accorse che una sorta di transfert negativo, da lui rilevato nelle sedute con i suoi analizzanti, lo riguardava nel blocco dei carteggi verso Fliess.
Così Freud rispetto all’analisi personale: “Posso guarire solamente lavorando con l’inconscio, con sforzi esclusivamente coscienti non posso farcela”, e così Freud quando, non riuscendo più a scrivere lettere all’amico, descrisse la fase nevrotica che stava attraversando: “Una paralisi intellettuale quale non avevo mai immaginato, uno strano stato mentale che la coscienza non riesce ad afferrare: pensieri crepuscolari, la mente offuscata, appena un raggio di luce qua e la”.
Ecco quindi l’incosciente Freud, che per procedere nelle difficoltà della vita non sa cosa farci della coscienza, del sapere.
Freud, come Svevo, palesò sempre il sogno di divenire famoso, di riuscire a fare qualcosa d’importante per l’umanità.
Freud incosciente che nella giovinezza fece sempre il passo più lungo della gamba, continuamente indebitandosi per procedere nei suoi progetti.
Così Freud verso il termine della vita, nella Autobiografia: “Guardando indietro a quel mosaico di fatiche che è la mia vita posso dire di aver iniziato molte cose e di aver emesso molte ipotesi”. Ipotesi sempre riprese, corrette, riviste e messe in discussione, inventandosi addirittura osteggianti interlocutori come ne L’analisi dei non medici.
Ipotesi quindi e non teorie. La teoria, seguendo l’etimo, non è nient’altro che una processione. Pensando di trasmettere teorie si adotta un’atteggiamento dogmatico, in quanto il dogma è necessariamente vero, mentre la teoria se procede dall’applicazione, dal pragma, trova possibilità di erroneità, di equivoco. Non è avvincente applicare una teoria deducendola dopo averla indotta. Occorre il racconto, l’astrazione dello scienziato, l’abduzione, perché questa presunta teoria trovi nuovi contesti, nuove possibilità di continuare a scriversi.
Occorre che l’inconscio sia in atto.
Le frequentazioni con Fliess, e le sue teorie campate per aria, sono state restituite da Freud attraverso Progetto di una psicologia, prima opera di quelle chiamate metapsicologiche, che gli consentirono di trovare nuove idee in cui tutto era rimesso in questione.
Lacan rilevava che le opere di Metapsicologia fossero state necessarie a Freud per uscire dai momenti di blocco.
Freud rifiutò laute offerte della Goldwin, che chiedeva la sua partecipazione alla produzione di un film su famose vicende amorose della storia (ad esempio Antonio e Cleopatra), e fu scettico con Abraham, al quale proposero un film sui meccanismi della psicanalisi, perché riteneva impossibile presentare in un film l’incessante astrazione teorica della psicanalisi.
Rilevante appunto come considerasse astratte le sue teorie (quasi come fossero tutte metapsicologiche) e come non mancasse molto per poter enunciare che l’analisi conduce alla teoria nell’accezione di una logica inconscia sempre da trovare, sempre da inventare.
Dell’inconscio, così come dell’analisi, si parla molto, ma non possiamo dirne nulla, l’inconscio non è l’oggetto della ricerca ma è necessario per proseguire nella ricerca.
L’inconscio, per dirla alla Lacan, si struttura come un linguaggio perché trova la propria struttura, la propria logica inconscia, così come il linguaggio sempre in costruzione.
E’ possibile cogliere la sintassi, le regole di traduzione, il come, il due e la sua relazione impossibile. Simultaneamente si coglie la valenza storica, la menzione, il ritorno alla memoria, che non è inconscio storicizzato, ma è necessario per giungere al due, all’autentico, all’enigma.
Ecco uno stralcio della teoria delle pulsioni di Freud: “Per l’essere umano non si può parlare di istinto ma di pulsioni, perché altrimenti non ci sarebbero le nevrosi e le perversioni e con il termine sessualità si descriverebbe solamente l’attività atta allo scopo riproduttivo”.
Tralasciando che anche gli animali frequentando l’uomo diventano nevrotici, si può affermare che la perversione e la nevrosi testimoniano come la sessualità sia un concetto allargato e difficile da definire. L’organizzazione sessuale freudiana ci dice innanzi tutto della varietà della pulsione, quindi a ciascuno la propria perversione o nevrosi, e non ad ognuno l’istinto sessuale riproduttivo.
Però non basta, perché la pulsione si traduca in una vita pulsante occorre inevitabilmente la sublimazione.
Cos’è questa sublimazione, che come diceva Freud consente le grandi scoperte scientifiche e le opere d’arte dell’umanità?
Affidarsi alla parola, all’atto di parola, alla narrazione per articolare il disagio che accompagna inevitabilmente la nevrosi. Altrimenti ad ognuno la nevrosi da manuale di psicologia, l’erotizzazione di una perversione sicura e ripetuta, atta al godimento e all’assopimento del disagio, cioè una perversione istintuale, ove l’oggetto trova nuovamente modo di rappresentarsi. Nel racconto la sublimazione, che può rilasciare testimonianza scientifica sull’asse ossessivo metonimico, oppure testimonianza artistica sull’asse isterico-metaforico, mai comunque istintuale perché il proseguimento è garantito dall’abuso catacretico, nella sovrabbondanza, nell’alterità, nel pleonasmo, nel tempo gerundio che non può che procedere, che abdurre, che portare altrove.
Non è possibile dirsi scienziati o scrittori o artisti, così come volerlo essere coscientemente e consapevolmente.
Occorre procedere narrando, occorrono dispositivi di parola.

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