La pubblicazione

 

La fretta della pubblicazione in attesa del “Mi piace” è ciò che sostiene Facebook.
Questa la smania del figlio che vuole essere riconosciuto, che può dirsi anche come paura di essere abbandonato.
Questo il figlio genealogico, catturato nel sistema spazio tempo, che sottostà alla finitudine del tempo, nel mondo della rappresentazione, dei soggetti presenti a se stessi che vogliono vivere nel presente invece che nel gerundio.
L’aspettativa è del riconoscimento da parte dei simili, le altre persone dell’insieme degli esseri umani che avrebbero la similitudine dell’umanitudine. Quindi la pubblicazione sarebbe rendere la cosa pubblica, mettersi a nudo fregandosene dell’eventuale apparato inquisitorio, svuotarsi di un peso, di un segreto per rivolgersi al popolo tutto, dal pieno al vuoto al pieno.
Altrimenti la cosa rimane privata segreta e segregata.

La proprietà di una cosa, singolare o di tutti, si istituisce quando vi è l’improprietà di linguaggio. Ecco lo stile, la singolarità a cui occorre sempre giungere. Possiamo dire che siamo padroni del nostro stile, del nostro idioma?
Giungere alla singolarità ma anche alla cifra, alla poesia. Cifra non come sintesi, non come codice da decifrare inerente qualcosa di trascorso. Cifra come zero, come apertura rispetto a qualcosa che sarà sempre e ancora da scriversi, che porta con se l’eternità dell’istante.
Questa è l’arte, la scienza, l’impresa, il procedere per integrazione che consente le invenzioni, ma anche la tolleranza, l’ospitalità, l’accoglimento della novità, dell’estraneo.
L’associazione, la conversazione, l’interlocuzione non è tra due simili ma è a tre.
Interlocuzione, inter, tra il dire e il fare. Ecco il silenzio e le sue virtù, ecco che si tacciono le rumorose alternative, le false voci.

Il due è originario, sincronia e diacronia, singolarità e poesia, condensazione e spostamento, ma procede dal tre.
Se non procede dal tre ecco che il due diventa dicotomico, in opposizione, in conflitto, guerrafondaio, moribondo nel godimento affettuoso di poter fare uno.
Pubblicare perché si è giunti al pubblico della cosa e non per giungere a destinazione, da un destinatario, il soggetto che scrive, ad un destinatore, il pubblico.
“Singolare e triale”, qualcosa da indagare nell’enigmatico “Uno e Trino” Evangelico.
Lo Spirito, l’Altro, l’alterità assoluta, una cosa non è mai questa o quella. L’Inconscio, qualcosa che sfugge al soggetto padrone di se stesso, al soggetto che si relaziona con gli oggetti, al ventriloquo, stupido spettatore interprete del corpo parlante, o furbastro che finisce a dialogare esclusivamente con la propria coscienza.

Cos’è allora la similitudine originaria?
Il transfert, l’incarnazione del sembiante nella figura dell’analista, anch’esso similare appunto per la sua umanitudine. Cristo, il Verbo che si fa carne.
E l’analista diviene personaggio, è personaggio in formazione, ma non è il sembiante in quanto tale. Questo l’abbaglio dal quale gli Apostoli non riuscivano ad uscire. Il transfert è necessario perché l’incontro sia con personaggi, perché le vite si colorino di narrazione e di teatro, perché le vite divengano più giocose e meno seriose, perché siano ricche di follie amorose e non di amori folli che giungono alla pazzia. L’analisi termina quando diviene interminabile.
Follia non senza rigore, amore non senza odio. Si ama la vita e quindi la gioia, si odia la vita per la sua durezza, per il rigore a cui conduce nel rivolgersi alla scrittura, per non fare della vita una malattia, nel farne casi letterari.

La questione del Figlio dunque. Perché il Figlio procede dal Padre e non è figlio genealogico di padre e di madre?
Il Figlio appunto perché le cose non possono susseguirsi segnate da quelle precedenti, non iniziano e non finiscono, non nascono e non muoiono, non c’è una causa ed un effetto. Il Padre non viene prima del Figlio ma che “il Figlio proceda dal Padre” è una procedura a cui occorre giungere.
Come a dire che nella vita occorre inventarsi il proprio passato, trovare l’invenzione del passato che non è mai stato.
Nessuno può essere Figlio, altrimenti reclamerebbe un riconoscimento o avrebbe paura dell’abbandono. Tanto meno può essere Padre padrone delle cose.
A ciascuno però il compito di relazionarsi con il Sembiante e divenire sembiante a sua volta.
Questa l’integrazione cattolica, la questione che il Nunzio non può che essere Apostolico.
La questione del Figlio è che la vita è nel divenire, nel gerundio, facendo parlando errando scrivendo narrando progettando.
In principio era il Verbo e il Verbo s’incarna. Cos’è un “verbo” se non una precisazione del fare, di questo caleidoscopio di immagine sonore?
Gli avvocati del Foro lo sanno bene, l’etimo di “fare” e “parlare” è lo stesso.

23 Febbraio 2013

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