Il ritorno dell’huligano

 

Norman Manea
– Il Saggiatore, Milano 2004 –

Il Ritorno dell’Huligano di Norman Manea è ricco di suggestioni ed apertura per continuare a dire ed articolare.
Un libro del quale anche se è terminata la lettura, la dislettura prosegue scrivendo. Il Ritorno dell’Huligano è ancora da scriversi.
Così Heinrich Böll sul retro di copertina: “Di tutti gli autori contemporanei, Norman Manea è quello che più merita di essere conosciuto al mondo”.
Dopo qualche ricerca, ascoltando qualche intervista a Manea, si evince che Norman Manea non è l’autore de Il Ritorno dell’Huligano, perché Il Ritorno dell’Huligano è capitato che sia stato scritto dall’inconsapevole Manea, dall’incosciente Manea.
Il Ritorno dell’Huligano non è la biografia intesa come cronaca, come cronografia di Manea, non è la rivendicazione ebraica rispetto all’antisemitismo, rispetto alle dittature naziste-comuniste, non è un libro politichese, parteggiante tra le righe per una o per l’altra fazione.

L’età huliganica è l’età adolescenziale della dissidenza intellettuale.
Nessun dilemma è frivolo nell’adolescenza, che neppur sappiamo quanto si prolunghi [pag. 150].
Che neppur sappiamo quando cominci!

Il carattere come tragedia, dicono gli antichi greci: questo osservavo quotidianamente nel matriarcato nevrotico della famiglia e nell’identità collettiva. Le reazioni isteriche con cui accoglievo questi clichés, a tredici, ventitre, trentatre anni e sempre, non attenuavano la pervicacia con cui mia madre si ridefiniva ancora e sempre, uguale a se stessa [pag. 25].
Il non cambiare considerato come tragedia e collegato al fantasma materno. Fantasma chiamato materno perché le frasi, il sapere, la certezza, sono spesso prerogative delle mamme. Fantasma non più fantasma, dove l’immaginario è scalzato dal reale: In ogni madre si nasconde un Fuhrer. E in ogni Fuhrer una madre [pag.342].

Esiste un solo esordio fertile nella vita: l’esperienza huliganica [pag. 30].
Occorrono dispositivi intellettuali per far sì che questa fertilità non decada nella rappresentazione di ideali ed obiettivi, con conseguenti discorsi circolari, burocratici, militari.
L’Altro, il terzo, non è escludibile, non tollera i dissidenti per partito preso, postumi della rappresentazione di se e dell’altro, sulla scia del nome del nome, della dissidenza della dissidenza, della rimozione della rimozione, della differenza come opposizione tra bene e male, tra sano e malato, tra soggetto ed oggetto, tra corpo e scena.
Il due in quanto tale è la differenza originaria, di una parola che si staglia sul proprio principio in quanto principio senza inizio e senza fine.
L’Altro ritorna non come ritorno al passato, come corsi e ricorsi, ma sancisce l’inescludibilità di esso.
Nessun ritorno è possibile, neppure quello nel ghetto [pag.137].
Non si può buttare fuori l’Altro dalla porta, perché comunque ritorna dalla finestra.
Come essere in sintonia con l’Altro?
Non si può decidere di aver a che fare con l’Altro, perché l’Altro attiene alla sorpresa, al miracolo, al lapsus, alla poesia. Si può divenire esperti ad avere a che fare con il sembiante.
Chi è il sembiante? Cosa è il sembiante?
Gesù Cristo è stato sembiante per i discepoli, e per chi lo incontrava. Gesù Cristo parlava, raccontava parabole, viveva disincantato e lo hanno crocifisso.
Gli ebrei dei villaggi, gli ebrei delle famiglie numerose, gli ebrei che comunicavano in Yiddish, che ascoltavano lo shnorrer, il matto del villaggio, colui che suonava il violino sul tetto, sono stati massacrati. L’Huligano Gesù, schernito dai farisei, risorto in migliaia di incarnazioni e bruciato vivo migliaia di volte nei forni crematori del secolo huliganico [pag.324].

Dispositivi intellettuali per saperci fare con il sembiante, con l’analista che non analizza un bel niente, perché altrimenti dopo un’attenta analisi occorrerebbe decidere.
Ma le cose non si possono decidere, come nel sogno le cose accadono.
Non vi sono testimonianze di sogni in cui il sognatore pensa, analizza e poi decide, ma il racconto, il dire che non gli appartiene prosegue.
La decisione è un momento della follia”, sussurrava Kierkegaard [pag.39]; la decisone appartiene al soggetto, all’uomo; l’indecisione, intesa come lasciare che l’Altro decida, è un folle attributo del vivere nel gerundio, facendo senza rappresentare se stessi e il mondo.
Mark Twain: “Un uomo è un essere umano, non può essere peggiore” [pag.284].
Dispositivi intellettuali per riuscire a raccontare, per non lamentarsi, perché tutti hanno una storia da raccontare: e il ricorrere ad aforismi non è per la complicatezza della storia ma per la difficoltà nel raccontare [pag.29-30].

Huligano?… Non sono un settario, sono sempre un dissidente. Ho fiducia unicamente nell’uomo solo, ma in lui ho molta fiducia [pag.25]: colui che sostiene la solitudine della riuscita intellettuale, artistica, assolutamente non socializzabile.
Cos’è la solitudine del poeta?…un numero da circo non annunciato [pag. 27]; nelle peripezie della vita capita di sentirsi clown, colui che mette in gioco le proprie debolezze alla ricerca di un pubblico che non c’è, e questo lo rende triste. Ma il fantastico pubblico della pubblicazione occorre, la pubblicazione occorre perché senza di essa nessuna possibilità di castrazione e parricidio, non si volge alla qualità, alla cifra, alla poesia.
Solamente nella pubblicazione la possibilità di uscire da un’appartenenza: L’eroe era pallido, sopraffatto dalla farsa che lo aveva scelto come protagonista della propria parodia…Non si era ancora liberato dalla pelle stretta in cui aveva abitato? Non aveva ancora dimenticato il passato, benché avesse dimenticato i volti che aveva incontrato un’ora prima? [pag.39].

Votarsi ad un ideale, dedicarsi totalmente ad una persona, fare uno come se l’uno non differisse da se e si potesse essere degli ognuno, tutti uguali racchiudibili in un insieme a fare le cose insieme, retaggi di un discorso che intende uscire della breccia huliganica attraverso lo sposarsi ad un ideale. Nel libro si attraversano ideali come quello comunista che aveva liberato Manea e la sua famiglia dal ghetto, il quale dovette ben presto essere messo in discussione e quindi successivamente abbandonato. Come quello di Norman di fare l’ingegnere, anch’esso abbandonato a favore della scrittura.
La storia di Manea una storia di abbandoni e sradicamenti: prima il deportamento nel lager, poi il non ritorno nel paese natale, poi l’esilio americano. Nel libro scorrono le elaborazioni di questi tanti lutti.
L’attenzione si pone sulle ripercussioni catastrofiche che può avere il crollo di un ideale, compreso il non sostenere la menzogna: A che cosa era servita l’Iniziazione tra i cinque ed i nove anni, se a venticinque non mi davo fuoco nella pubblica piazza, come i monaci buddhisti, per denunciare la menzogna in cui era domiciliata la nostra bizantina esistenza? [pag.191].
Ma la questione che si evidenzia è appunto quella della scrittura come dispositivo iniziatosi con l’età huliganica, considerato da Manea un continuo esilio, risorsa per approdare a quell’inappartenenza tout-court, a sostenerla, a coltivarla dove le vicissitudini della vita sembravano rappresentare un’inappartenenza reale, concreta nell’ontologica posizione di causa.
Chi rimpiange il paese natale troverà in esilio motivi particolari per rimpiangerlo; chi riesce a dimenticarlo e ama la nuova dimora sarà rimandato indietro, sradicato di nuovo e gettato in un nuovo esilio [pag.297].

La solitudine, la nostra sola Patria [pag.297], dove c’è l’apertura per la speranza nel suo culmine, la disperazione. La funzione paterna sempre mancante non è ricercabile, né può essere addomesticata come accade nel mondo occidentale rispetto all’animale domestico. La funzione paterna sta nell’apertura di una mancanza originaria che non manca di nulla.
Questa patria non è matria di eroi: il paese non aveva generato santi, solo poeti [pag.298].
Nel libro è spesso richiamato Kafka, cioè la sembianza delle sue opere, dei suoi romanzi, la cifratura del suo diario.
E Kafka non può non essere richiamato per dire della solitudine: Ritrovare te stesso nella tomba di un albergo [pag.296]. Così come sovviene Leibniz e le monadi, quindi ciascuno in difficoltà, confuso, disorientato, angosciato per trovare un’idea, una logica, un ragionamento, un racconto, per trovare l’armonia necessaria a relazionarsi inconsapevolmente con gli altri, che per cominciare a scrivere occorre chiuda tutte le finestre, in questa sorta di raccoglimento, che Manea può aver trovato paradossalmente in America: In nessun altro posto al mondo si può imparare meglio la solitudine [pag.296], l’America dei grandi spazi e dei desolati orizzonti.
Infastidente per la solitudine è quello che in questo caso viene indicato come Italia, ma in generale l’umano troppo umano: “Non sopporto la famigliarità della gente, le domande, gli abbracci, la chiacchiera, l’affabilità, gli amici, i parenti, i vicini pronti a soffocarti con il loro affetto” [pag.296].
Quindi a ciascuno trovare il dispositivo di solitudine per poter scrivere o leggere: “Mi ero rifugiato, sempre, nella casa che solo il Libro mi prometteva. Esilio, malattia salvatrice? Un andirivieni verso e da me stesso: nel tentativo di trovarmi, di sostituirmi e di perdermi per ricominciare daccapo” [pag.202], a ciascuno trovare la camera d’albergo “Accogliente, indifferente, come si conviene” [pag.235].
Quindi la funzione paterna come patrimonio intellettuale. Il matrimonio con il simile funziona solo se in atto la relazione non esclude l’Altro, se si accede al patrimonio intellettuale, se ciascuno, come diceva Rilke, si trova ad essere custode della solitudine dell’altro.

Quindi “Come guarire da se stessi?”: “Tra le speranze che avevo riposto, a diciott’anni, nella modesta professione, c’era anche quella di difendermi da me stesso. La speranza non si era avverata. L’ingegneria non mi aveva guarito , grazie a Dio, da me stesso” [pag.162].
In merito al periodo della dittatura comunista: nella società della Menzogna Istituzionalizzata, l’io resisteva solo nelle enclaves che proteggevano, sia pure imperfettamente, l’intimità. [pag.136].
Guarire da se stessi, oltre a mobilizzare questo Io, include anche interrogarsi sull’Io: “Le parole, le frasi, pagina dopo pagina e libro dopo libro, disboscavano la realtà irreale dell’Io, Io che scopriva ed inventava se stesso. Il discorso dell’interiorità evolveva lentamente, impercettibilmente” [pag.152].
Come a dire che le crisi esistenziali, d’identità, vanno attraversate, non è possibile trovare la propria identità né la causa della crisi.
Impossibile appellarsi e fare cerchio nell’identità nazionale della patria.
Manea non dubita sul fatto che quello che manca non è la rivendicazione sionista del popolo ebreo, ed anzi ne suggella la sua essenza: ”Quando il dottor Freud ti ha chiesto: cosa resta di ebraico in un ebreo che non è religioso né nazionalista, e non conosce la lingua della Bibbia, hai balbettato la risposta che lui stesso aveva formulato: molto! Non hai spiegato che cosa significhi il termine, e neppure lui aveva avuto l’imprudenza di spiegarlo” [pag.232].

Gran parte delle elaborazioni intorno alla presunta nostalgia del tempo in cui si parlava nella propria lingua, quella natia (quella di Manea il rumeno), si trovano nel capitolo La lingua notturna, essenziale quando fa affiorare l’interrogativo se emigrando si abbandona un Paese o una lingua. Interessante perché fa riflettere sul detto molto spesso confermato che non si è profeti in patria.
Come essere profeti in patria?
Cambiare lingua costringe ad essere in una continua traduzione, in un continuo viaggio che sopperisce all’atto isterico di passare da un paese all’altro pensando che la soluzione sia nel luogo giusto, nel compagno giusto, nel lavoro giusto.
Proprio in un periodo storico che i media contraddistinguono come era della comunicazione globale ed istantanea, Babele sancisce l’occorrenza del malinteso, della vitalità di una lingua sempre in costruzione. E se fosse sempre così, che ciascuno sia trovato, parlato da un qualcosa che alcuni chiamano Parola originaria perché non prevede un principio ed una fine?
Manea quando impara la lingua americana, cioè parla a sproposito, è fertile, quando pensa di averla acquisita, e quindi si sofferma sui significati che si possono intendere, rimpiange la lingua rumena.
Le parole avevano ritrovato il loro prigioniero, avevano acquistato senso…neppure il sogno poteva espropriarmi della coerenza e dell’integrità [pag.312].
Manea sogna dell’Hypokrino, cioè l’ipocrita, quello che chiacchiera al bar, quello che recita, che dice falsità, quello che usa la lingua, che abusa della parola per non accogliere la catacresi della parola, l’abuso spropositato originario della Parola.
Mentre s’interroga sull’Hypokrino pensa a Cioran, che dopo la fertilità acquisita emigrando in Francia incappa nell’Alzheimer, cioè nell’incapacità di memoria e quindi il ritorno al ricordo della lingua rumena.

Nel racconto, nel sogno di Manea, molte “H”, questa lettera palindromica ed equivoca ché rimane uguale se la si gira sottosopra. Il sogno che ciascuno incontra parlando, la cifra, il paradosso a cui provvisoriamente approda.
“H” come il disegno di una porta di rugby, questo gioco ritmico, questo gioco di danza, dove si procede in avanti passando la palla, la parola all’indietro, cioè raccontando. Dove chi si arrischia a portare la palla, al dire, è sostenuto. Una parola non facile, precaria, inaddomesticabile come la palla ovale.
Anche per Manea la questione essenziale è il sogno: il vecchio secolo è stanco, siamo alla fine del gioco, ciascuno accomoda il suo giaciglio dell’identità, per nascondersi dai mostri del mattino successivo. Non è il pigiama la divisa adatta. “Il circo della notte richiede magia” sussurra il fantasma. “Non sei mai stato capace di magia” [pag.298].
I mostri del mattino successivo richiamano Carmelo Bene quando diceva che ciascuno al mattino ha il compito di spogliarsi di se stesso.
Come mai se la condizione del sogno è la condizione efficace degli umani al risveglio occorre spogliarsi di se stessi?
Come mai ci sono sogni, come le campane che suonano mentre sta suonando la sveglia, che fanno pensare che il sogno, in teoria durato tutta la notte, potrebbe essersi prodotto solamente al risveglio?
L’energia è solamente potenziale, nulla si trasforma, nulla ha una principio ed una fine, le cose accadono nell’apertura, nello squarcio della Parola originaria.
La meccanica quantistica è giunta proprio a questo, alla simultaneità. Se non si misura, se non si da un nome al nome, ora c’è il sole, ma non c’è assicurazione che verrà la notte, l’uomo può volare. L’impressione è che ci sia il sole, ma la notte c’è già, simultaneamente: l’ossimoro non è rappresentabile.
Questo Wenders, questi gli U2 in The Million Dollar Hotel, questo ciò che indica Tom Tom, ingenuo innamorato: nessun suicidio cari signori cadaveri, voi inquisitori siete già morti, l’unica corte è quella dei miracoli, l’uomo può volare, la nave dei folli è appena salpata, il salto dal grattacielo è il salto quantico della simultaneità di massa ed energia, di particella ed onda.

Il capitolo La lingua errante tira in ballo nuovamente l’Yiddish, la mitica lingua del sogno. Mitica perché è la lingua del sogno, babelica, errante, ricca di animali fantastici, di cifre, di aperture. Ecco perché della madre occorre farne il mito. Perché della cosa più cosa, della cosa più certa che possa esistere, la madre ed il suo amore, occorre farla passare in un racconto onirico, tinto di aura mitica. I bambini pronunciano, evocano, lallano la parola “mamma”, quando disperati vengono mandati altrove dalla madre che non sostiene più i loro capricci.
Ci sono adulti che chiamano “mamma” spaventati, subito dopo un incidente fisico. Certo sembrerebbe un disperato bisogno d’aiuto verso la persona che più gli da fiducia, ma l’essenziale è che già tentano di sintonizzarsi verso la lingua babelica, l’alingua lacaniana, il balbettio dove il linguaggio non è più strumento, dove la parola originaria apre per ciascuno le propria strada, il proseguo.
Nel breve capitolo La lingua errante si narra delle ore che precedono l’operazione agli occhi della mamma. Ebbene questa vecchia signora durante il sonno, angosciata per le sorti dell’operazione, parla a voce alta in Yiddish: confessioni contorte, parole del sonno, parole da nessun luogo, una specie di balbettio malato nella notte…lamentazione codificata, lingua strana, incomprensibile…un sussurro, al principio, brevi segnali gutturali, seguiti dal ritmo vivace di una confessione tormentata, segreta. Vocabolo misterioso, lamenti e rimproveri, liriche riprese di tenerezza, destinate agli iniziati. Una sorta di ipnotico sfogo doloroso, in una lingua errante. La voce di un oracolo ancestrale iniziato, che strappa all’eternità un messaggio ora morboso, protervo, ora mite, indulgente: stranezze di una fonetica barbara, settaria, che elettrizza il buio. Dialetto tedesco o olandese, si direbbe, invecchiato e addolcito da un patetico languore, inflessioni slave o spagnole e sonorità bibliche, una melma linguistica che ha adunato e trasportato con sé affluenti di ogni genere. La vecchia racconta agli antenati e ai vicini e a nessuno gli episodi della peregrinazione: monologo che volge, ogni tanto, in lamenti e trepidazioni di cui non si sa quanto possa essere scherzo o ferita…la lingua del ghetto geme, sussurra, reclama, vive, sopravvive [pag.118-119].

Sorridiamo e ridiamo e comprendiamo quanto tempo le parole hanno impiegato per trovarci anche se poi non hanno affatto avuto bisogno di tempo. Vengo a sapere che, dopo l’uccisione del dittatore, la poetessa aveva giurato di non avere più paura, di non perdere il sentimento dell’uomo libero. In seguito, tuttavia, più di una volta aveva avuto paura, pur comportandosi come se non l’avesse….Annuisco di nuovo, nel frattempo anch’io ho imparato qualcosa sulle paure dell’uomo libero. Riesco a balbettare: “Il nostro incontro mi ha ammansito, disarmato, rasserenato…sintesi confusa della confusione. Avrei potuto, altrettanto bene, credere di essere in un’altra stanza e congiuntura, pensare a Praga e a Milena Jesenkà e a coloro ai quali, in tempi difficili, aveva dato rifugio. Mi turbano, lo riconosco, le solidarietà che consentono ancora la posterità [pag.284].
La paura non è mai di qualcuno o di qualcosa, la paura è strutturale, l’angoscia è una strettoia, un collettore la cui attraversata consente l’ebbrezza del volo, del debordamento. L’istituzione della paura, del terrore, della fobia per evitare il sogno dell’acrobata Kafkiano.
Dispositivi di Parola come una conversazione analitica, come la scrittura per qualificare l’angoscia, per poter astrarre, per poter effettuare voli pindarici, folli voli con le parole.
Se si lascia spazio, se si spazializza l’angoscia originaria, se si contiene, se la si ontologizza, se si chiude l’intervallo, ecco il tilt, ecco la pazzia.
La follia è pleonastica e debordante, la pazzia è fagocitatane, è tarpante.

Con gli anni l’huligano si è affievolito ma il bambino per lo scrittore deve sempre esistere (il bambino della copertina del libro) [Manea in un intervista].
Quale bambino? Perché il bambino?
Dispositivi di Parola innocente ove l’innocenza ha a che fare con l’infanzia, con il balbettio, con l’invenzione della lingua, del mondo e del bambino, non con il processo, il giudizio e la colpa.
Dispositivi che non nuocciono e non curano, perché la sanità non è contrapposta alla malattia, ma è attributo di un fare, di un dire enigmatico, da sogno, dove ciò che accade non può che sorprendere, non può che approdare al riso.
Ed i bambini si nutrono di fantastico, sono attratti ed inventano storie di draghi dinosauri e meduse, di sirene e di maghi, di fate e di streghe.

La scrittura dunque!…stiamo andando verso il racconto che Manea fa della sua vita conclamatasi nella scrittura.
Dunque, nonostante i premi, le traduzioni ed il titolo di professore, per i quali tutti ti invidiano, la ferita suppura. Lo potevo indovinare anche da sola, non era difficile. Devi scrivere altri libri, questa è la soluzione” [pag.282].
Non ho mai un momento di calma, nulla mi è donato e tutto deve essere acquistato” diceva Kafka [pag.283].
La ferita, la peste, lo squarcio della Parola originaria, della differenza originaria, una differenza non rispetto a qualcosa, ma il plus ultra che fa la differenza, che stilizza.
Solo alla memoria in atto è concesso fornire la vitalità dell’inappartenenza.
L’”acquistare” di Kafka è da intendersi che i regali, i presenti non apportano nulla. Vivendo nel lavoro e nella contingenza acquisto e vendita sono simultanei.
Nella pubblicazione c’è già la vendita, perché la cosa non è più la cosa (altrimenti la domanda “che cosa è” “che cosa devo fare”, che l’analista si sente spesso rivolgere), ma è merce, attiene al mercato delle idee, al racconto del come. Le domande e le risposte non sono importanti, perché in un itinerario narrativo la domanda di accadimenti è rivolta all’Altro, la strada della riuscita intellettuale è già stata intrapresa.
Lo zio Ariel era l’esempio per il bambino Norman della dedizione alla scrittura: Ariel era rimasto pensieroso, pareva non conoscesse rimedio alla follia della scrittura, ma dopo qualche secondo, mi aveva guardato a lungo, col suo sguardo grande e opaco, e mi aveva afferrato il braccio sinistro con l’artiglio della sua mano vecchia e forte. “Non esiste rimedio per questa malattia, lo scrivere! Neppure le donne ti guariscono, lo so. I quattrini manco per idea. Neppure la libertà, no, né la democrazia…”, E rideva.[pag.122]
Una scrittura maniacale al punto da definirla malattia e al punto di ipotizzare studio appassionato in una yeshivah: un seminario teologico per intellettuali che non hanno avuto la possibilità di istruirsi in questa alternativa, ma vulnerabili alle domande, anche a quelle della religione [pag123].
Anche Manea, a più riprese nel libro [intero Cap.72], lascia intravedere la scomodità per l’intellettuale di essere considerato come elitario, snob, serioso, proprio perché anch’egli vorrebbe talvolta non essere così.
Nel capitolo Chernobyl, 1986, c’è il racconto del villaggio ebraico con famiglie di dieci figli, dove tutti sono personaggi mitici a tal punto che la nonna racconta della morte di un nipote che ha a malapena conosciuto. Parrebbe una vita senza nevrosi, senza depressione, dove tutto è vendita. Anche nel campo di concentramento si sostengono sul witz, e tutto è sempre in vendita. Manea dice però della sua impossibilità di eliminare le indecisioni, di non essere quindi elitario, dell’invidia e della nostalgia per non riuscire anche lui ad abbandonarsi alla vita maggiormente vissuta, fatta di peripezie, dove però non c’è spazio per l’elaborazione delle difficoltà che sembrano accomunare l’essere umano, come ad esempio l’amore: il setaccio risolverebbe tutto, con un giro. Se agisse anche sull’amore, il più intricato degli intrichi, un misero incidente nucleare sarebbe una bazzecola [pag.104].
La sessualità è impadroneggiabile come la parola, la s’incontra parlando, anch’essa è nella Parola.
Ogni rapporto sessuale è atto omosessuale, diceva Lacan.
Ogni atto di parola è dunque atto sessuale.
L’amore come ribellione! Prima i vincoli, poi le ambiguità, i tentativi di evasione dall’amore, dopo l’evasione dalla famiglia. Perfezionando da sola, attimo dopo attimo, la sua opera di usura, la vita usurpa, comunque, le nostre illusioni di perfezione e il nostro orgoglio di unicità…la chimera della giovinezza lo aveva abbandonato alle delizie dell’imperfezione [pag.113-114] …i vecchi conflitti sono divenuti oggetti di humor senile. Solo l’ironia conserva ancora qualcosa del veleno di un tempo [pag.103].

La scrittura come il diario di bordo, il diario di debordo, il momento del raccoglimento, dell’intimità. In merito all’essenziale della camera d’albergo nel suo ritorno in Romania: sul comodino, il taccuino con la copertina azzurra e le grandi lettere bianche, Bard College. Il giornale di bordo del pellegrinaggio. [pag.261].
La scrittura come biografia, da cui non riusciamo a separarci…l’incomprensibile chiamato biografia si direbbe che cerchi il proprio epitaffio…abito a disagio la mia biografia….la biografia si trova in noi, solo in noi? [pag.353-362-363].
Raccontare per dimenticare, per rimuovere, per incidere un epitaffio, per essere in sintonia con l’avvenire, con la sorpresa, con l’incontro che verrà.
Tutto avviene ed accade nella Parola autentica, nessun prima e nessun dopo, ciascuno dimora e diviene nella Parola Originaria, nella biografia come ritratto, come racconto: niente dura, neppure questo giorno che ospita il passato [pag.347].
Non puoi perdere quel che non hai e non esiste ritorno. Né buono, né cattivo, avevano ripetuto Cioran e tanti altri, dai tempi remoti ad oggi. Quale privilegio può far concorrenza a questa impossiblità? Non appartenere a nessuno, essere minerale, senza altra legittimazione che l’attimo. Niente, senza altra vendetta che l’effimero. [pag.299]; essere effimeri, vivere senza obiettivi, affidarsi alle effemeridi, al diario perché il progetto si possa scrivere, per vivere giorno per giorno.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *